America latina: corruzione e giustizia indipendente

Le carceri latinoamericane sono assiepate di ex presidenti ed ex ministri finiti dietro le sbarre con una condanna per corruzione. Tutti perseguitati politici? Forse, qualcuno. Siamo davanti a una giustizia indipendente? Assolutamente, no. Semmai che quando la fanno troppo grossa è impossibile coprire il sole con un dito. Un doppio problema per la democrazia
Il presidente argentino Alberto Fernandez e la vicepresidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner (AP Photo/Marcos Brindicci)

La lista dei capi di stato e di governo finiti nelle maglie della giustizia in America Latina è lunga, in modo preoccupante. Tutti i presidenti peruviani dal 90 in poi meno l’attuale, l’ex presidente ecuadoriano Rafael Correa ed il suo vice, l’ex presidente Lula del Brasile, l’ex presidente del Panama poi liberato, l’ex presidente guatemalteco Otto Pérez Molina e la ex vice presidente Roxana Baldetti, la ex first lady del presidente hondureño Porfirio Lobos e l’ex presidente Rafael Callejas finito in manette per uno scandalo di mazzette nel calcio. Ma la lista continua. In Argentina Carlos Saúl Menem ha evitato il carcere solo grazie al fatto di essere in possesso (letteralmente) di uno scanno da senatore, che lo salva dallo scontare una pena a quattro anni per corruzione, e gli ha consentito di dilatare i tempi per il gigantesco scandalo del traffico d’armi con Croazia ed Ecuador, negli anni 90. E stiamo parlando solo di quelli condannati. La lista degli indagati – ai quali si aggiungono anche vari ministri – si estende enormemente e dovrebbe indurre alla preoccupazione sullo stato di salute della democrazia in America latina. Se diamo retta ai condannati, sarebbero tutti, manco a dirlo, perseguitati politici, cosa che può anche darsi in alcune ben precise eccezioni. Ma l’ovvia conclusione è che un sistema che presenta mele marce alla testa delle istituzioni è difficilmente credibile. Il che spiega anche la progressiva sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche da parte della gente.

La vicepresidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner  (AP Photo/Natacha Pisarenko
La vicepresidente argentina Cristina Fernandez de Kirchner (AP Photo/Natacha Pisarenko

Nella fila degli indagati sotto processo figura anche l’attuale vicepresidente argentino, ed ex presidente, Cristina Fernández de Kirchner. La sua situazione giudiziaria, che secondo i suoi sostenitori è frutto di un complotto orchestrato da giudici corrotti e nemici politici, non le ha impedito di candidarsi insieme ad Alberto Fernández, oggi alla presidenza. Eppure, le accuse dei pubblici ministeri sono molte e gravi. Vanno dall’arricchimento ingiustificato all’assegnazione di lavori pubblici a industriali amici, opere che molto spesso non sono state nemmeno realizzate. Per non parlare del pagamento da parte di quegli stessi amici di soggiorni in hotel di proprietà della famiglia Kirchner: riservavano centinaia di stanze per lunghi periodi, senza che nessuno le occupasse. La rete di questo sistema è conosciuta come la Causa dei quaderni. Le indagini scattarono a partire dal ritrovamento di vari quaderni di appunti appartenenti all’ex autista di un funzionario ministeriale, che aveva preso nota di numerosi movimenti di denaro, di borse da ritirare e da consegnare. Il traffico confermava peraltro un sistema di riciclaggio documentato anche da clamorosi video, a tutti noti, nei quali si vedono collaboratori vicini alla coppia presidenziale che contano enormi mucchi di denaro frutto di evidenti trame. Avrebbero potuto cercare per vie legali di affermare la verità, se sono innocenti come sostengono. Ma non è stata questa la scelta della ex presidente. Durante l’attuale presidenza è in corso una doppia offensiva nei confronti della giustizia: da una parte, il presidente Fernandez ha promosso una riforma che moltiplica il numero dei giudici e dei tribunali, ma senza garantire maggiore indipendenza della magistratura. Per rafforzare la giustizia, si vuole istituire un Comitato consultivo, ma tra i selezionati a farne parte è presente l’avvocato difensore della vice presidente, e questo non è certamente garanzia di imparzialità.

La settimana scorsa si è assistito ad un nuovo colpo di scena. Con un voto del Senato, di cui Cristina de Kirchner è presidente, si era ottenuta la rimozione dei due giudici che avevano messo la Kirchner sotto processo per l’affare dei quaderni. Una decisione che impugnava il decreto emesso sotto la presidenza Macri, il predecessore del presidente Fernández, che disponeva l’assegnazione dei due giudici ai rispettivi tribunali. Il decreto, secondo la decisione del Senato, violerebbe la norma costituzionale che prevede l’intervento del Senato nell’assegnazione ai giudici delle loro sedi. In realtà, in questo caso tale violazione non si verifica, perché quando un giudice viene spostato da un tribunale ad un altro equivalente, tale assenso non è richiesto. Lo spostamento dei due giudici fu infatti avallato a suo tempo dalla Corte Suprema. E proprio Cristina de Kirchner ed altri presidenti hanno in passato fatto ricorso a tale prassi per situazioni analoghe.

Così, per contrastare una decisione del Senato ritenuta lesiva del principio di indipendenza della magistratura, è intervenuta la Corte Suprema che, all’unanimità, ha restituito i due giudici ai tribunali loro assegnati. E questi si sono ora attivati per procedere nuovamente nei confronti dell’ex presidente.

Una triste storia, dunque, che contribuisce a rinfocolare la polarizzazione, spesso poco razionale, che si vive nel Paese, secondo la quale da un lato o dall’altro siamo in presenza del male assoluto. Il problema è che, nel furore delle passioni politiche, si perde di vista sia la lotta contro la corruzione (stiamo parlando di miliardi di dollari e di impiegati bancari ed ex fattorini, oltre a vari politici, che in poco tempo hanno inspiegabilmente accresciuto in modo esponenziale i loro patrimoni), che il consolidamento di istituzioni che ogni giorno appaiono sempre più logorate.

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