Amazzonia, casa comune

Un focus per far luce sulla devastazione ambientale in corso e sulla necessaria difesa delle comunità indigene. Aanticipo dal numero di settembre della rivista Città Nuova

«Ho voluto iniziare da qui la visita in Perù. Grazie per la vostra presenza e perché ci aiutate a vedere più da vicino, nei vostri volti, il riflesso di questa terra. Un volto plurale, di un’infinita varietà e di un’enorme ricchezza biologica, culturale, spirituale. Quanti non abitiamo queste terre abbiamo bisogno della vostra saggezza e delle vostre conoscenze per poterci addentrare, senza distruggerlo, nel tesoro che racchiude questa regione. E risuonano le parole del Signore a Mosè: “Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai, è suolo santo”».

Quattromila rappresentanti delle diverse comunità indigene dell’Amazzonia sono riuniti al Coliseo di Puerto Maldonado per vedere papa Francesco. Lo attendono con ansia. Di lui sanno quanto basta per considerarlo un alleato nella difesa della casa comune. Anche Bergoglio non nasconde di avere «molto desiderato questo incontro». Con cui Francesco ha dato inizio solo al proprio pellegrinaggio peruviano. Quel 19 gennaio 2018, pontefice e indios hanno aperto insieme il Sinodo speciale sull’Amazzonia. Con 21 mesi di anticipo sull’inizio ufficiale dell’evento, in Vaticano, il 6 ottobre 2019. Evocativa la scelta di Francesco di entrare in Amazzonia dal Perù.

Nell’immaginario comune, la foresta è legata allo sterminato Brasile e all’imponente estuario del “Grande fiume”, che si apre 7 mila km a Est delle Ande. In realtà, però, l’Amazzonia – che abbraccia ben 9 Stati e include quasi la metà della superficie latinoamericana – è un ecosistema molto più esteso e complesso del corso del Rio da cui prende il nome. La sua sorgente è situata proprio negli anfratti delle monumentali montagne peruviane. Là, nella cordigliera Chila, alle pendici del monte Mismi, sgorga l’Apurimac, il fiume delle origini. Ugualmente emblematica la scelta di “cominciare” il Sinodo a Madre de Dios. La regione è metafora concreta di quanto devastazione ambientale e crisi sociale siano collegate. In essa, il potere dell’“economia che uccide” mostra la sua forza più brutale.

Se, come dicono molte comunità indigene amazzoniche, «la Bibbia è scritta sugli alberi», l’enciclica Laudato si’ è incisa nei suoi fiumi intossicati e nelle rocce nude che si estendono per chilometri al posto della foresta. A divorare la selva e le vite degli abitanti di Madre de Dios è l’oro. I suoi fiumi sono ricchi del metallo. A partire dagli anni Duemila, il boom dei prezzi ha spinto nella zona una massa di disperati, provenienti dal Perù andino, il più povero. Formalmente l’estrazione sarebbe vietata nelle aree – buona parte della regione – dichiarate riserva naturale. Data l’assenza dello Stato, però, in breve, le mafie si sono appropriate del business, aggirando i divieti. Sono queste a garantire, a colpi di machete e fucile, la docilità della manodopera, il combustibile necessario per muovere le pompe aspiranti, la “sicurezza” e soprattutto i canali di contrabbando attraverso cui “l’oro sporco” fluisce – al costo di 35 mila dollari al chilo – nel circuito delle grandi imprese di Usa e Europa, Italia inclusa. Il Perù è il sesto esportatore mondiale d’oro con una media tra le 160 e 170 tonnellate all’anno. Buona parte di queste – almeno il 22%, ma potrebbe essere il triplo – viene estratta a Madre de Dios, senza che vi sia una sola miniera legalmente riconosciuta. Non solo.

Il 44,5% del Pil regionale dipende dal business dell’oro, il quale, al 95%, è di “origine sconosciuta”. Nel frattempo, in un decennio, il tasso del disboscamento è triplicato rispetto al passato. E il metallo ha ingoiato 70 mila ettari di foresta. Insieme a una cifra incalcolabile di vite umane. Le vittime dell’oro non sono solo gli 80 mila minatori clandestini, quasi tutti giovani e giovanissimi costretti a immergersi per ore nelle pozze di lavorazione. Vasche “tossiche”, poiché per separare il metallo dalla roccia viene impiegato il mercurio. In cambio, ogni squadra, fatta di 4 persone, riceve il 25% di quanto ricavato, il resto va all’impresario, padrone del motore e dei materiali impiegati. Non è comunque poco per nessuno: in media, ogni gruppo estrae un valore d’oro equivalente a circa 10 mila dollari al giorno. Peccato che i guadagni si polverizzino altrettanto rapidamente. Abbruttiti da un lavoro sfibrante, in condizioni ambientali estreme, isolati in mezzo alla foresta, i minatori spendono tutto nell’unico svago messo loro a disposizione dalle stesse mafie che li hanno reclutati: i bar delle prostitute. Ce ne sono circa 800 nella zona, soprattutto vicino alle pozze di estrazione.

Oltre che capoluogo della biodiversità, Madre de Dios è la capitale peruviana della prostituzione forzata. Insieme alla foresta, la febbre dell’oro brucia le vite di migliaia e migliaia di ragazzine – arruolate con l’inganno o la violenza nei poverissimi altipiani –, vendute e comprate nel mercato del sesso a pagamento. Il grido della terra e degli esseri umani risuona all’unisono. A Madre de Dios e in centinaia e centinaia di altri punti dolenti e meravigliosi d’Amazzonia. Le frontiere dell’estrattivismo. Sistema non nuovo: fin dalle prime esplorazioni del XVI secolo, la selva è stata considerata uno spazio vuoto da sfruttare.

Niente di più falso. Nella regione, risiedono 35 milioni di persone tra cui quasi tre milioni di indigeni, articolati in 390 popoli che parlano 240 lingue differenti. Sono questi ultimi, troppo spesso considerati sopravvissuti di altre epoche remote, le principali vittime di un modello che non perdona la loro alterità e rifiuto all’omologazione. Specie ora che, data la fame crescente di risorse per alimentare l’economia, la pressione s’è fatta insostenibile. E i fronti si moltiplicano. A Tundayme, ad esempio, al confine tra Ecuador e Perù, è un colosso cinese del rame a divorare la selva. Mentre nella frontiera opposta, quella dove il territorio ecuadoriano sfiora la Colombia, nella provincia di Sucumbíos, il nodo è il petrolio. Dal lato colombiano del confine, è la coca a ingurgitare la selva. Nella zona de La Dorada, la Valle della droga, 8 persone su 10 lavorano nel “settore”. Nella Triple frontera – un labirinto acquatico di 1.631 km quadrati, in cui si intrecciano Perù, Colombia e Brasile –, la principale minaccia è rappresentata dal business del legname. Un commercio che si svolge non lontano dall’ultimo rifugio dei popoli indigeni in isolamento volontario. Se ne contano 17, la più alta concentrazione del pianeta.

Non si tratta di “buoni selvaggi” che inseguono il mito dello stato di natura. Il rigetto scaturisce da esperienze di incontro traumatiche nel corso degli ultimi 5 secoli. Per gli “isolati”, la fuga dal mondo esterno è l’unico modo per salvarsi. Sono gli incontattati forse i più dimenticati, insieme ai nativi costretti a emigrare verso le grandi metropoli amazzoniche: Manaus, Belém do Pará e Iquitos, che li respingono come “corpi estranei”. Gli indios, però, non si arrendono. Con ostinata pazienza continuano a fabbricare frammenti di alternative. In cui la relazione tra uomo e creato sia di cura e di alleanza, non di sfruttamento. Non combattono solo per se stessi. In gioco c’è il futuro della casa comune. Cioè la casa di tutti.

 

Rischiavamo di scomparire

DAVI KOPENAWA

Leader indigeno Yanomami, Brasile

Quando ha cominciato a lottare per i diritti degli indigeni?

Dalla metà del ’900, il mio popolo, gli Yanomami, è stato sterminato dagli operai incaricati di costruire la Perimetral norte, il faraonico progetto di autostrada amazzonica voluto dalla dittatura per “integrare” il Nord del Brasile. Anche i miei genitori sono morti. La Perimetral, inoltre, è diventata la porta di accesso alle terre indigene per ogni genere di cacciatori di risorse. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la nostra patria è stata invasa da decine di migliaia di cercatori d’oro. Rischiavamo di scomparire per sempre. A quel punto, insieme a Survival International e alla Commissione pro Yanomami, ho guidato la campagna internazionale che ha spinto il governo brasiliano a riconoscere il diritto degli Yanomami alla loro terra ancestrale.

Il suo popolo ha ottenuto, in usufrutto esclusivo, un’area di quasi 10 milioni di ettari a cavallo degli Stati di Amazonas e Roraima, dove vivono 26 mila indios. Com’è la situazione ora?

La demarcazione della nostra terra è stato un passo importante. Ora, però, stiamo tornando ai livelli del passato. Ci sono almeno 10 mila garimpeiros (cercatori d’oro) in territorio Yanomami. Lo sappiamo perché osserviamo e interroghiamo la foresta. Disboscamento, fiumi avvelenati e incremento esponenziale delle malattie portate dall’esterno – malaria, Hiv, tubercolosi – sono buoni indicatori. Per non parlare dei soprusi che subiamo da loro. I minatori sono armati: quando si ubriacano, aggrediscono le donne e gli uomini in cui si imbattono. Assistiamo allo scempio e denunciamo. I minatori illegali sono, però, sostenuti da una rete di connivenze. Altrimenti non potrebbero operare né tantomeno rivendere l’oro estratto.

Si dice che gli indigeni siano contrari allo sviluppo. È così?

Che cosa significa “sviluppo”? L’auto? Il conto in banca? È tutto qua ciò che intendete con progresso? Quando penso al progresso, immagino uomini e donne che vivono in una foresta sana e pulita, si bagnano in fiumi dove non si annidano sostanze tossiche, sono liberi di parlare la loro lingua, esprimere la loro cultura, sognare i loro sogni senza essere per questo considerati selvaggi o inferiori. Immagino persone pronte a scambiare le proprie conoscenze, ad abbeverarsi del sapere altrui senza perdere il proprio. Immagino esseri umani che scoprono e si scoprono. Se questo è ciò che intendete con progresso – e spero di sì perché il resto è un miraggio –, lo vogliamo, lo vogliamo subito.

 

Il Sinodo, una risposta coraggiosa al grido della terra

Cardinale PEDRO BARRETO

vicepresidente della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam)

Perché un Sinodo sull’Amazzonia?

Come il Gran Rio cresce man mano che gli affluenti si tuffano nel corso principale, questo evento è il risultato della confluenza di molti sforzi, piccoli e grandi, compiuti dalla Chiesa in difesa della casa comune. Una pietra miliare nell’acquisizione di consapevolezza dell’importanza della regione per la Chiesa è stata il documento di Aparecida. Direi che diverse esperienze pastorali sono sboccate – come il Rio delle Amazzoni – nel gran mare di quel testo. Ne vorrei sottolineare due aspetti cruciali. In primo luogo, il testo ribadisce che la Chiesa deve essere povera per i poveri sull’esempio di Gesù. Lo stesso papa Benedetto XVI, nel discorso d’apertura della Conferenza, ha affermato il fondamento cristologico dell’opzione preferenziale per i poveri. E tale scelta deve essere fatta, dice il documento, a partire dai più poveri fra i poveri, gli invisibili, come gli indigeni amazzonici.

Perché l’Amazzonia riguarda tutti e la Chiesa ha deciso di occuparsene?

Il Sinodo è una risposta coraggiosa al grido della terra e dei poveri, accogliendo la proposta della Laudato si’ di custodire la nostra casa comune. Quanto accade in Amazzonia è la sintesi delle molteplici violenze che vive il mondo. È un laboratorio in cui si leggono, con drammatica chiarezza, le grandi sfide per i cristiani del nostro tempo. In primis quella a favore degli scartati da un’economia che uccide, in senso letterale nella regione. L’Amazzonia, però, è anche un faro di speranza.

Per quale ragione?

Gli indigeni ci mostrano, con la loro vita, come sia possibile stabilire una relazione più equilibrata con l’aria, l’acqua, gli alberi, il Creato intero. Una relazione urgente e imprescindibile se il mondo vuole avere un futuro. Per tale ragione, forse, nelle pareti d’acqua e nella vegetazione della selva, s’annida la forza che può aiutare a costruire una globalizzazione dal volto umano, capace di riconoscere il diritto alla differenza dei popoli e delle culture. In questo senso, la concentrazione territoriale del Sinodo sia inversamente proporzionale al respiro della tematica affrontata.

Lei è nato e cresciuto a Lima. Come è nata la passione per l’Amazzonia?

È cominciata quando andavo a scuola, dai gesuiti, e alcuni missionari che lavoravano nella foresta ce ne raccontavano i suoni e i colori, facendomene innamorare. L’ho conosciuta, però, solo a 22 anni e allora mi sono sentito pienamente vivo. Entrare a contatto con la natura dirompente della selva, con fratelli tanto diversi da me e fra loro, mi ha fatto scoprire Dio un’altra volta.

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