Addio ad Alfredo Di Stefano, inventore e genio del calcio “universale”

Soprannominato la saeta rubia (il fulmine biondo), è stato uno dei migliori giocatori del mondo. Vincitore di due palloni d'oro, era un attaccante di pura classe che aiutava la difesa, impostava l’azione e andava in gol. Il tutto ad una velocità sconosciuta per i suoi tempi, gli anni '50 e '60, quando il calcio si muoveva al rallentatore
Omaggio ad Alfredo Di Stefano del presidente del Real Madrid Florentino Perez

“Grazie, vecchia mia” è scritto sulla targhetta sotto la palla di bronzo che troneggia all'ingresso della casa di Alfredo Di Stefano. Per Alfredo la palla era femmina, nel senso più dolce del termine, non come possesso, ma come oggetto del suo canto. Lei, la palla, gli ha regalato tutto: successo, denaro, fama. Lui l'ha sempre trattata con cura, l'ha accarezzata, l'ha addormentata sul suo petto e sul suo piede, l'ha portata a ballare il tango sul prato d'ogni stadio, l'ha guidata sicuro in dribbling sfrenati fra le gambe degli avversari, l'ha concessa al compagno più libero, ma il più delle volte per riaverla più vicina alla porta, l'ha appoggiata di testa con precisione, l'ha indirizzata di piede con velocità assoluta.

Lui era al principio, durante ed alla fine delle giocate da goal. Correva e ricorreva per il campo, cambiando fronte e ritmo, dal trotterellare pigro al ciclone inarrestabile, senza palla smarcandosi negli spazi vuoti e cercando aria quando gli spazi si intasavano. Mai fermo, sempre a testa alta, scrutava il campo e sapeva prima come sarebbe andata a finire. Tutto il campo entrava nelle sue scarpe: il campo nasceva dai suoi piedi e dai suoi piedi cresceva.

Alfredo non è stato semplicemente un talento del futbol, uno dei migliori giocatori di sempre, il numero uno per Gianni Brera. I suoi numeri, irraggiungibili, non dicono tutto: 529 goal, 332 in 372 match solo col Real Madrid, due scudetti in Argentina, tre in Colombia, otto in Spagna, cinque coppe dei campioni (oggi Champions League) consecutive, una Coppa Intercontinentale, due Palloni d'Oro, 5 volte Pichichi (capocannoniere della Liga) e miglior giocatore europeo di tutti i tempi, riconoscimento della rivista France Football, lui che era argentino.

Alfredo è nella storia del calcio mondiale perché lui, dotato di grande velocità (la saeta rubia, il fulmine biondo) e potenza, fu il primo vero esempio di calciatore universale, capace di giocare a tutto campo, creare gioco ed al tempo stesso andare a finalizzarlo. Un attaccante di pura classe che aiutava la difesa, impostava l’azione e andava in gol. Il tutto ad una velocità sconosciuta per quei tempi, quando il calcio si muoveva al rallentatore. Col suo talento e la sua visione di gioco, con il suo calcio universale fu lui il precursore dell'Olanda di Cruijff, del Milan di Sacchi, del Barcellona di Guardiola.

Un leader per classe, carisma e per innato senso di superiorità. L'ambizione non gli faceva certo difetto: suo padre, figlio di un emigrato di Capri, sua madre di origini irlandesi e francesi, cresciuto nel quartiere industriale di Barracas, a Buenos Aires, la città capitale di ogni razza, di quel sangue misto che ne ha sviluppato l'estro pungente, la passione ribelle, la voglia di riscatto, il desiderio sfrenato di inseguire il successo in due continenti, che lo ha fatto crescere apolide, incurante persino della strumentalizzazione, da parte del regime franchista, dei trionfi del suo Real.

Il suo motto era “Quello che sembri, sei”: non ha mai nascosto di amare, vero precursore di molti calciatori di oggi, il denaro, il lusso, i bei vestiti, mangiare e bere bene, godersi la vita. Al suo biografo ufficiale, Cesar Pasquato di El Grafico, Di Stefano a fine carriera spiegò così il suo modo di veder il calcio e la vita: “Per diventare bravi giocatori occorre pensare giorno e notte al pallone. I giovani che vogliono fare solo quattrini senza fatica o svolgere altri mestieri, anche soltanto per distrarsi, mentre giocano da professionisti, sbagliano, perché infallibilmente toglieranno, anche senza accorgersene, tempo prezioso al loro mestiere. Io non sono mai stato molto disciplinato nella vita privata, ho bevuto botti di vino e ho mangiato quintali di pesce fritto, ma tutto questo mi serviva per stordirmi e non pensare ad altro. E dormire. Ma in sostanza io mi sono mortificato in campo in allenamenti durissimi, mentre nei giovani d'oggi c'è la tendenza ad allenarsi poco e a non saper soffrire. Gli allenamenti duri, massacranti, estenuanti, sono indispensabili ad un campione, formano il campione. A me hanno dato l'ossatura. Il campione deve essere ambizioso ogni giorno di più, ogni giorno più ambizioso del giorno prima”.

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