Accogliere, testimoniare, annunciare

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C’è chi va fuori, in terra di missione, ad annunciare agli uomini che Dio li ama immensamente. Migliaia e migliaia di persone che per questo annuncio ci hanno rimesso a volte anche la vita. C’è chi, invece, la “missione” la vive tutti i giorni a casa propria, in ufficio, a scuola, sull’autobus. Anche a costo di rimetterci se non la vita, quantomeno la “faccia”. Si tratta di milioni di cristiani che, vivendo il vangelo, quest’amore di Dio per ogni uomo lo testimoniano ogni giorno e quando è il caso ne parlano anche. Oramai, lo sappiamo, tutto il mondo è terra di missione. Da alcune parti si può parlare di primo annuncio. Da altre si parlerà di riscoperta delle proprie radici. In un momento in cui in Europa si discute se inserire o no Dio nel testo della Costituzione, c’è anche chi si interroga sui modi di fare conoscere a tutti cosa Dio ha a che fare con la storia degli uomini, di ogni uomo. Un’impellenza resa tale e dalla scristianizzazione dilagante e dalla presenza di immigrati che popolando i nostri paesi, interpellano le comunità cristiane sul dovere della testimonianza della loro fede e dell’annuncio di essa. Qual è e quale deve essere infatti l’atteggiamento di chi accoglie l’immigrazione nei confronti di chi ne è protagonista? Basta la solidarietà, l’accoglienza, la carità anche organizzata? O si può fare di più? Avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere, ero forestiero e mi hai accolto… Sono alcuni dei doveri che il vangelo chiede come prova per dimostrare la coerenza con l’impegno preso come cristiani. Ma non sono i soli. Altri elementi caratterizzano quelli che si riconoscono nel nome di Cristo. Ad esempio quell’atteggiamento racchiuso nel suo testamento finale: “Che tutti siano uno perché il mondo creda”. Sottolinea due aspetti: comprende appunto “tutti” e vuole che il mondo “creda”. In termini concreti testimonianza e annuncio. La chiesa si è interrogata su questi punti che essa concepisce come caratterizzanti la sua attività. Lo ha fatto in particolare con l’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris Missio (1990) e il documento Dialogo e annuncio (1991) elaborato dal Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso e la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Testi nei quali assume rilievo la necessità dell’inculturazione del vangelo e la capacità di scoprire e vivificare quei “semi del Verbo”, germi di verità presenti e operanti nelle altre religioni. Anche la Chiesa italiana si è sempre sentita interpellata sulle modalità di questo annuncio. E di recente ha chiamato a raccolta tutti gli operatori del settore immigrazione, chiedendo loro uno scambio di idee e di esperienze in merito. Il convegno, che ha visto riuniti per quattro giorni presso il Centro Mariapoli di Castelgandolfo più di 600 delegati provenienti da tutta Italia, compresi un certo numero di vescovi, ha evidenziato la vitalità di proposte ma soprattutto di esperienze mature nel campo e aperto nuove prospettive che con grande slancio ed entusiasmo si sono diffuse sull’intero territorio nazionale. Impegnata generosamente ormai da decenni sul fronte dell’accoglienza (vedi Caritas, Centri di ascolto…), la chiesa nostrana ha fatto suo quell’invito, espresso poi in un intervento dal card. Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana, a considerare una “sfida provvidenziale” la presenza sul nostro territorio di questi nostri fratelli di diversa nazionalità, religione e cultura. Si tratta di non confondere il rispetto della diversità con una mancanza di identità. Cioè i cristiani non possono sottrarsi al dovere di vivere coscientemente e in profondità il loro credo, che è la base di un annuncio libero da intenzioni di proselitismo. “Racconto la mia fede – esortava il cardinale – ma lo faccio con tanta partecipazione personale, convinzione e passione, che l’interlocutore si trova di fronte alla comunicazione di un’esperienza che difficilmente lo lascia indifferente”. Vale a dire che se i cristiani, singolarmente ed insieme, sono in grado di far “leggere” agli altri il vangelo con la propria vita, quando lo raccontano sono più che mai credibili perché presentano non solo una dottrina che potrebbe risultare equivalente ad altre, ma un’esperienza già vissuta magari nei confronti di chi di quel testo scritto duemila anni fa non conosce neanche l’esistenza. Già Paolo VI ricordava che il mondo ha bisogno di testimoni prima ancora che di maestri. Basta dunque con un cristianesimo sedentario, accomodato nei propri schemi e nelle consolidate strutture. Aprirsi agli altri esige una radicalità di vita che sprigiona energie forse prima impensate nel testimoniare l’amore di Dio per tutti gli uomini e quindi nell’annunciarlo anche con le parole. Come veniva affermato nell’introduzione al convegno dal presidente della commissione episcopale per le migrazioni mons. Alfredo Garsia, “la presenza di questi fratelli che vengono da lontano, la quale a volte può essere scomoda e condizionante, in definitiva ci offre una provvidenziale occasione per un vangelo da proporre o riproporre loro e da riscoprire da parte nostra”; e ci interpella su

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