Il ’68 ieri e oggi

Alcune parole chiave di quegli anni turbolenti, commentate da un giovane spettatore perplesso, ma tutt’altro che distaccato

Con riferimento agli interessanti interventi sul tema, pubblicati sulla rivista cartacea e nel sito di Città Nuova, aggiungo qualche riflessione personale sulla ricorrenza dei cinquant’anni dal Sessantotto, un evento che mi ha visto giovane spettatore perplesso, ma tutt’altro che distaccato e insensibile. Non sapendone fare una trattazione coerente, mi limito a quattro parole commentate, cercando di fare un ponte tra allora e adesso.

Rancore dei più svantaggiati – e questo non sarebbe tanto strano –, ma anche o soprattutto di compagni di strada che svantaggiati non sono, affascinati dall’idea di poter, tanti insieme, attribuire ogni male “a qualcun altro”. Prima di capire che il male è anche dentro di noi, e quindi giungere a un giudizio più equilibrato, passa parecchio tempo; nel frattempo quanto accade fa comodo a qualche terzo, che soffia sul fuoco, con le tecnologie del tempo.

Ingenuità, tanta, sia per il fatto di non rendersi conto di quanto detto sopra, sia per la convinzione di trovarsi a uno snodo unico della storia, così importante da poter sorvolare sul rispetto delle regole e degli interlocutori (ricordo l’intervento di un giovane zittito a un’assemblea perché il partito a cui apparteneva era evidentemente improponibile, e quindi non bisognava lasciarlo parlare). La giustificazione, proclamata o tacita, è che «quel rispetto varrà in tempi normali, ma questo è un caso speciale, il che ci autorizza a soprassedere». Poi, molto più tardi, si capisce che quelle regole erano utili proprio per contenere i danni creati in quel caso lì.

Eccessi, nelle parole (la dialettica verbale tra le varie fazioni marxiste era dura e costante) e anche nelle azioni (ricordo, durante un’occupazione a cui ho assistito, che quasi le prendevo perché non capivo le ragioni per far danni), al seguito delle idee-guida del momento. Quando domani quelle idee-guida saranno cambiate, e magari saranno diventate addirittura opposte, tra i più accesi, infuocati e irremovibili nel propugnarle ritroveremo alcuni di quelli che facevano altrettanto con le idee-guida di ieri. Qualcuno poi c’è sempre che prende alla lettera l’appello contro il “nemico” e lascia una scia di morti e di feriti, ieri poliziotti o altri servitori dello stato, oggi immigrati di colore nero.

Idealità, il bagaglio prezioso del ’68, quando l’obiettivo per cui scaldarsi e impegnarsi non era la difesa della propria identità e della propria condizione di vita contro qualcuno che poteva metterla a rischio, ma un mondo da rinnovare, a beneficio di tanti, a cominciare dai più deboli. In quegli anni c’è stato chi ha lasciato gli studi per andare a far scuola ai bambini nelle borgate romane, o ha dato le dimissioni dalla banca per far lavorare gli emarginati del Nord-est. E se è vero che occorre guardarsi dalla possibile trasformazione dell’idealità in ideologia, è anche vero che senza il desiderio di prendersi cura di un mondo da rendere migliore, nella nostra società sarebbero ancora pratiche normali la schiavitù, la reclusione violenta dei malati psichiatrici o la tortura.

Alcuni traevano dalle loro radici cristiane la spinta all’impegno e la disponibilità al sacrificio (in alcuni casi il distorto sacrificio del brigatista); a molti giovani cristiani – tra i quali potremmo includere quel generoso e ispirato contestatore di Paolo Dall’Oglio – quegli anni hanno indicato uno standard di impegno più alto, per non ritrovarsi tra i tiepidi.

Nei movimenti di rinnovamento della politica e della società italiana di questi ultimi anni si è espressa un’idealità sincera, attenta in particolare ai temi della disuguaglianza e del rispetto dell’ambiente, frammista – ancora una volta – ad elementi contraddittori. L’invito è prima di tutto ai giovani, ma anche noi delle generazioni precedenti non possiamo tirarci indietro: «Continuate, continuiamo, a contestare il presente, per realizzare qualcosa di più giusto e di più adeguato alle grandi sfide – non solo italiane – che abbiamo di fronte».

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