Khashoggi, spy story e giornalismo

Grande scalpore ha suscitato la scomparsa dell’editorialista del “Washington Post”, fatto fuori nel consolato saudita a Istanbul. Ma attenzione, la sua era cronaca o intelligence?

Gli ingredienti della spy story internazionale ci sono tutti: il principe, il diplomatico, il giornalista, il presidente, il sangue, il mistero, i soldi, i depistaggi, il corpo fatto a pezzi, le ammissioni e le smentite, un pizzico di sesso… Dal 2 ottobre, giorno della sua scomparsa dopo che era entrato nel giardino dell’ambasciata saudita, Jamal Khashoggi ha preso posto in pianta stabile nelle prime pagine dei giornali e dei siti del mondo intero, portando i politici più in vista del mondo intero a esporsi in un senso o nell’altro, da Trump a Putin, da Macron ai governanti sauditi.

Ma la vicenda Khashoggi non è così semplice come si vuol far credere. Nei giornali occidentali Jamal viene dipinto come un difensore strenuo delle aperture liberali che stanno emergendo in certa cultura saudita, spinta che aveva sostenuto dalle pagine di Al Watan e poi del Washington Post. Si dice che fosse un opinion maker aperto e pericoloso per il regime del principe ereditario Mouhammad Bin Salman, Mbs per gli amici (e i nemici), che pure fa figura di fustigatore della corruzione della famiglia reale e di promotore di numerose riforme dei diritti umani in uno dei Paesi più dittatoriali del pianeta.

 Saudi consulate general in Istanbul after Saudi journalist murde

Tutta la vicenda professionale del “giornalista” è giocata sul filo sottile dei rapporti ambigui tra servizi segreti e media, delle loro liaison dangereuse. Khashoggi, in effetti, ha conosciuto una parabola ideologica che lo ha portato dal wahhabismo più radicale – sostanzialmente l’appoggio esterno ai Fratelli musulmani e nascosto a forze violente islamiste che difendevano il presunto Islam originario – fino all’affermazione della necessità per l’Arabia Saudita, e per le monarchie del Golfo Persico, di aprirsi ad un sano umanesimo e alla difesa dei diritti dell’uomo. Nel suo ultimo editoriale aveva scritto: «Il mondo arabo sta vivendo la sua versione della cortina di ferro, imposta dalle stesse forze che governano. Avremmo bisogno di una nostra versione dei vecchi media transnazionali, per poter essere informati su ciò che succede nel mondo. Più importante, dobbiamo creare una piattaforma per le voci arabe. Soffriamo la povertà, mala amministrazione e bassa educazione. Creando un forum globale, indipendente dai governi nazionalisti che diffondono l’odio attraverso la propaganda, la gente ordinaria potrà capire autonomamente i problemi della propria società». Curiosamente, però, si è trovato sul fronte opposto dell’uomo forte di Riad, che sembrerebbe voler introdurre modifiche importanti alla legislazione saudita, permettendo libertà finora impensabili.

La vicenda Khashoggi si posiziona in realtà nella grande faida che sta colpendo la famiglia reale saudita, che ricordiamolo conta un centinaio di migliaio di membri, in cui la corruzione è pratica corrente e così la costante lotta per giungere al vertice dello Stato saudita. Nella “famiglia” Saud il sangue scorre spesso e volentieri, la sparizione di personaggi scomodi è frequente in misteriosi incidenti aerei o automobilistici. È lì, probabilmente, che bisogna pescare la causa della morte dell’editorialista saudita, nelle lotte intestine della famiglia reale saudita.

 Turkey Saudi Arabia Writer Killed

Nulla o poco a che vedere, insomma, con i giornalisti che perseguono a fatica e con accanimento lo svelamento di qualche parcella di verità, scoprendo e verificando i fatti più nascosti, con la passione di chi avverte di compiere una missione necessaria al bene comune. Nulla a che vedere con i cronisti che rischiano la vita sui campi di battaglia. Nulla a che vedere con quella massa di proletari che oramai fa giornalismo esclusivamente da desk, cioè dinanzi a uno schermo di computer. Nulla a che fare col giornalismo romantico e impegnato di un Hemingway, di un Capote, di una Aleksievic o di una Fallaci.

Derubrichiamo allora il caso Khashoggi: non consideriamolo una questione di rischio giornalistico; classifichiamolo piuttosto nella categoria delle spy story.

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