Wojtyla un papa mai prudente/1

Un ritratto del pontefice polacco, ora santo, nella rievocazione di un acuto osservatore del nostro tempo (1 continua)
Giovanni Paolo II

L’immagine di Karol Wojtyla, quel giorno, ricordava la sofferenza della croce. Mi si era precisata una domenica mattina, mentre il pontefice celebrava in San Pietro. Era la giornata al cui tramonto, lo si sapeva, avrebbe lasciato i palazzi apostolici per entrare al Gemelli, dove sarebbe stato sottoposto a un’operazione chirurgica del cui esito non si poteva essere certi. Vedevo che ogni gesto gli costava fatica: la mano non impugnava il pastorale, vi si stringeva. Lo sguardo era fisso, la voce malferma. Un altro uomo rispetto a quello del solenne Te Deum nella Basilica vaticana, quando appena eletto aveva attraversato a grandi passi il sagrato per avvicinarsi alla folla, e al momento della benedizione levò in alto proprio il pastorale tracciando nell’aria il segno della croce. Il volto, adesso, esprimeva una fragilità nuova, eppure traspariva la volontà di governarla, come accade a un atleta cui vengono meno le forze, però non al punto di costringerlo a desistere; e mi tornarono alla mente le parole pronunciate dall’apostolo Paolo, quando sentì approssimarsi il declino del suo vigore: «Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi»: ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.
Fu così che tra i molti titoli dedicati al trono di Pietro avrei scelto, per Karol Wojtyla, quello che a parer mio più gli somigliava: servo dei servi di Cristo. Chi è il “bravo servo”? Chi crede, intanto, in una Chiesa che procede nel segno della conversione, dell’avvedutezza; del pentimento, dell’indulgenza; dell’unità invocata da Cristo, non degli opportunismi particolari e solitari. Il “bravo servo”, dunque, richiama l’anima e il corpo per offrirli degnamente al “padrone”; anche se – per chi è proteso a dare qua e adesso, un senso alla propria vita – quel “padrone” è l’uomo, con le sue miserie e le sue grandezze, le sue paure e i suoi coraggi. E, comunque lo si interpreti, con il miracolo del suo esistere, intanto, su questa terra; dove il primo dei doveri è spendersi, mettere cioè a frutto il viatico ricevuto.

Allora pensai a Karol Wojtyla: sempre in corsa, per dir così, mai prudente o parsimonioso, ma in un atteggiamento verso la vita che possono intendere coloro i quali l’affrontano pienamente, sapendo di dover incontrare gioie e dolori, dubbi e consolazioni, struggimenti e certezze; cioè consapevoli che solo attraversandola intensamente potranno darle un senso pieno; persino nei cedimenti, che pure attardano prima o poi anche gli atleti più generosi. In questa corsa l’unica esperienza che tutti gli uomini portano impressa sulla loro carne è prima o poi il soffrire, mi dicevo, e anche il papa ne era segnato. Nella felicità si è tutti diversi, solo il dolore ci fa uguali. Allora, anche il laico vede nello stesso patire del papa il disegno di esplorare, sine pietate, una comune e indomabile continuità. Di ciò, in un modo che non saprei definire, Giovanni Paolo II si fece carico lasciando che la croce stesse, per credenti e non credenti, sulle sue spalle.

Non so quale lezione, teologicamente, possa trarsi da questa immagine, mi pare tuttavia che essa racchiuda il senso del primo “segno” affidato da Cristo a Pietro: essere fondamenta di un edificio per il quale non conteranno abbellimenti, decorazioni, trionfi, ma saldezza, tolleranza e condivisione, perché è il luogo su cui si poserà la croce di ciascuno e di tutti. È dalle basi che si misura la consistenza della casa, e la storia di quel pontificato, continuando a dar frutti, era già lì a dimostrarlo; basti pensare a come il “papa polacco” si calò negli errori e negli orrori del mondo, ai gesti e agli accenti per condannarli e respingerli in questo Occidente avaro di memoria; ripercorrendo, coraggioso e leale, gli errori stessi della Chiesa, invitandoci a credere in una famiglia universale, come volle dire da Assisi, per la quale non ci fosse più un inginocchiatoio da cui una preghiera potesse pretendere di salire più in alto di altre.
Non ho memoria di un “potente” che abbia visitato e conosciuto le realtà umane, sociali, spirituali del pianeta con la dedizione di Giovanni Paolo II; instancabile, e nient’affatto celeste, nel proporre l’imitazione di Gesù. E ciò è accaduto dal primo all’ultimo dei suoi viaggi, mostrando ovunque un Cristo di misericordia, ma che alle beatitudini legava indissolubilmente quel «guai a voi» cui Wojtyla intendeva dare una nuova tensione.

Anche quando si è creduto che lavorasse per ribadire l’unità dei cattolici, magari in un partito, si è ignorato che essa andava intesa nel senso di mettere insieme, onde trarne un servizio, la responsabilità sociale, culturale e dottrinale che promana dalla prima e ultima giustificazione secolare del cristiano: essere la conciliazione delle diversità e delle separatezze. Che poi i rapporti tra società e politica siano una grande questione storica – non solo dell’epoca, e quindi anche della Chiesa – non autorizza a trasformare l’impegno, o a comprimerne la testimonianza, in una particolare, distinta milizia. La dottrina sociale della Chiesa non è un corpo di norme ideologico, ma un patrimonio di esperienze che vanno doverosamente affrontate nella Storia, in nome di qualcosa che la trascende: l’anima. Qui Wojtyla disse cose risolute sui limiti del razionalismo quando esso s’impone, per principio, di ignorarla; perché, afferma, senz’anima l’uomo è privo di sé, della sua origine e del suo destino. «L’uomo è chiamato a far nuove, anch’egli, tutte le cose», vuol ripetere con il salmista, «ma non a riprogettare l’uomo». È un no alla manipolazione, non alla ricerca e quindi alla scienza.

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