Volti e storie di una marcia

La scelta nonviolenta come uscita dalla crisi che produce le guerre. Immagini di un popolo che non si può incasellare
marcia della pace

 Serve a poco rincorrere i dati sui numeri (50, 80 o 200 mila?) della partecipazione alla marcia Perugia-Assisi del 25 settembre 2011, per due motivi molto semplici. Per prima cosa, nella civiltà dello spettacolo ogni evento si brucia facilmente in un consumo ossessivo di immagini e notizie, che per rimanere in evidenza ha bisogno di qualcosa di eclatante come una contestazione o qualcosa creato ad arte. L’altra ragione è che i grandi numeri contro la guerra in Italia, anche quando ci sono stati, non sono stati decisivi. Nel 1915 una maggioranza popolare contraria a quell’orrenda «inutile strage» si rivelò inadeguata di fronte ad una minoranza determinata sostenuta dai grandi fornitori di armamenti. Neanche si può parlare di un successo nel raggiungere un qualche obiettivo per l’enorme mobilitazione che nel 2003 invase Roma – e tante piazze in Europa e Usa – contro la pretesa “guerra giusta” in Iraq.

 

Per cercare di capire qualcosa serve a poco rimanere un osservatore che si tiene alla “giusta distanza”. Meglio mettersi a camminare assieme a questo popolo che decide di ritrovarsi in nome della pace nella campagna verde e assolata dell’Umbria, verso quella rocca d’Assisi che è il luogo emblematico di un potere militare storicamente strategicamente posto sopra la città. Ci sono diversi testimoni riconosciuti come credibili, ma non un leader, un personaggio carismatico che raduna le folle in una parata che dimostri la forza e la compattezza. Anche quando più realtà decidono di mettersi assieme si parla di un tavolo, pensandolo rotondo senza posti di predominio con qualcuno a fare da coordinatore, come Flavio Lotti, ma da portavoce. Insomma con modalità sicuramente meno sbrigative di altre più verticistiche, anche perché la diversità e le tensioni non mancano da nessuna parte. Più che l’arrivo all’adunata finale sembra predominante il poter compiere un tratto si strada insieme. Magari ci si ferma prima a parlare con i numerosi banchetti dedicati a miriadi di iniziative, mentre la rocca rimane lontana e inaccessibile. Anche perché, dopo cinque ore di marcia, le forze vengono meno, e bisognerà pur decidersi a trovare il mezzo per tornare a casa.  

 

A Santa Maria degli Angeli saranno una decina quelli di Azione non violenta, la rivista fondata da Aldo Capitini, e sono come travolti da una fiumana di persone che chissà se avranno mai letto qualcosa sul concetto di "omnicrazia" – il potere di tutti – del filosofo perugino. Ma evidentemente non viene richiesto un certificato di purezza ideologica. Qualcuno issa anche bandiere di partito contro una regola dettata dal 1961, ma viene ignorato. I vari gruppi arrivano da tutta la Penisola, tantissimi gli scout di ogni divisa, intere scolaresche, e persone soprattutto che non vogliono essere classificate in nessuna categoria. C’è chi non smette di suonare e cantare, come sa chi frequenta certi ambiti parrocchiali. Ma niente melassa buonista. Sono gli stessi ragazzi che raccolgono firme per chiedere la confisca dei beni dei mafiosi, dove andranno a fare i loro campi di lavoro. Si può sentire l’esecuzione in coro di Freedom, uno dei gospel del cammino di liberazione dei neri d’America, in un tratto di strada contornato da coltivazione di mais all’arrivo nella città di Bastia Umbra, che sembra come sotto uno strano assedio pacifico, mentre quelli della di Oxfam si presentano in giacca e cravatta ad offrire simbolicamente terreni come ottimi investimenti speculativi sulle materie prime alimentari. Un modo per capire certi meccanismi che affamano il pianeta, mentre non si comprende se il vigile che porta lo stendardo di uno dei tantissimi comuni presenti sia più meravigliato del clima di festa o dal perché non sia scelto un altro completo ufficiale da indossare.

 

La cronaca potrebbe continuare a parlare delle presenze più originali, come la compatta comunità dei sikh, che ad una domanda sulla loro provenienza rispondono che arrivano da Montevarchi, con una cadenza che ricorda la parlata della città toscana dei fabbricanti di cappelli. Ma la mente non può non andare ai tanti conflitti in corso in queste ore come quello decisamente anomalo che si sta consumando in Libia, si dice nel silenzio dei pacifisti. Così l’isolato gruppetto romano degli statunitensi “Citizens for Peace & Justice” hanno deciso di rimanere nella Capitale dove si possono incontrare davanti ai vari palazzi istituzionali per palesare la violazione di ogni regola internazionale per giustificare nuovi e antichi appetiti geopolitici. Considerano troppo moderata e generica la posizione della Tavola della pace, anche se il messaggio finale di Assisi pone in evidenza anche la questione libica e quella afghana con dieci punti di un’agenda politica che esige un deciso cambio di direzione a cominciare  dal «disarmare la finanza e costruire un’economia di giustizia».  

 

Più che di «pacifismo» che è parola fuorviante con il suo "ismo" si tratta di capire se la scelta nonviolenta sarà capace di offrire soluzioni credibili ed esigenti dentro i vari contesti di guerra, a cominciare dalle questioni sociali pronte ad esplodere come ben sanno i lavoratori presenti in gran numero con le loro bandiere del sindacato. Come scritto in un enorme striscione dell’Avis «il sangue va donato e non versato».  

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