Volontaria al carcere, perché?

Un'esperienza riportata da una volontaria del carcere di Teramo. «Dio ci aiuti a sanare le piaghe del crimine che schiavizza i più poveri e aiuti quanti lavorano ogni giorno per rendere più umana la vita nelle carceri», ha detto il Papa all'Angelus di domenica scorsa.

Perché non andare?. Il volere comune è recludere ma dietro quella reclusione ci sono persone che, per rinascere, non possono essere dimenticate. L’abbandono, o meglio, il sentirsi abbandonate, non porta a quella rinascita, a quella possibilità di cambiare, di rinvenire un sé smarrito, che ha bisogno dell’altro per potersi ritrovare. C’è proprio la necessità di riapprendere il bene, di recuperare ciò che è stato smarrito, offeso, deviato, rovesciato ed oscurato. Il male è un baratro dove sprofondi e dal quale non esci se il bene non ti tende la mano. Ecco perché andare. Non andare significa recludere, dimenticare, abbandonare.

Io volevo andare, ma occuparmi dei bambini, invece sono andata come una bambina e mi sono così annullata che mi sono sentita Giovanna, Elvira, Giuseppina… Il carcere non si può raccontare, perché ti entra dentro così profondamente che lo senti. Senti il freddo delle mura, che non lasciano passare il calore del sole. Le finestre non illuminano abbastanza e per questo non riescono ad eliminare le ombre.

Io non esisto se tu non ci sei, ma se tu ci sei siamo Noi. Nella realtà del carcere Noi, Gabriella, Teresa, Elisabetta, Luisa, Amedeo, Martina, gli agenti di custodia e tutte le recluse e i reclusi costruiamo quel campanile di Città Nuova che vuole includere anziché emarginare. Il pregiudizio è vecchio, appartiene al passato, vogliamo edificare il nuovo, come una città ideale che include, accoglie, accompagna anche fuori le mura della casa circondariale, perché quando si aprono i cancelli e si torna a vivere “il fuori”, che ha mille incognite, insieme possiamo farcela.

Era il 16 agosto, avevo una mano completamente scottata da una pentola di besciamella bollente che mi aveva procurato una scottatura di 2° grado. Dovevo andare a prendere Elena che finiva la pena e accompagnarla alla stazione. Il giorno prima anche lei si era scottata con la moka e la notte non era riuscita a dormire, anche perché aveva sognato di non trovarmi davanti al piazzale ad aspettarla.

Dal carcere quella mattina mi chiamano tre volte, per confermare e mi informano dell’orario preciso di uscita della detenuta. Arrivo ed aspetto. Quando esce, Elena è sorridente e piena di buste. Mi saluta con affetto e mi confessa di avere uno stato ansioso che le durava da giorni. Le avevamo acquistato abiti nuovi, così si spoglia e si cambia in macchina. Dalla casa circondariale alla stazione ci vogliono circa 15 minuti, durante il tragitto parliamo come due vecchie amiche.

Appena arrivate, io vado a fare il biglietto con una busta che conteneva 600 euro, i risparmi che aveva accumulato durante la detenzione e li portava tutti in una busta gialla. Dico allora ad Elena di nasconderla e di tenere a portata di mano solo 20 euro. Entriamo in stazione: il treno stava per ripartire. Chiedo alla capostazione, una bella ragazza, di aspettare, perché dovevamo prendere le buste. Ci guarda intensamente e altrettanto intensamente ci ha amate con la sua risposta: «Datemi il biglietto che adesso lo vado ad obliterare».

In macchina, io con una sola mano, ed Elena anche, non riusciamo a prendere tutto. Allora si avvicina un ragazzo di colore e ci dice: «Porto io». La capostazione aveva uno sguardo radioso, dal treno ci guardano sorridenti. Io e il ragazzo saliamo sul convoglio, lui lascia le buste e scende, io saluto Elena augurandole una vita nuova.

L’amore è contagioso, perché è dono, è il dono più bello e più prezioso che il genere umano ha ricevuto e ridonarlo non costa niente.Buona vita nuova Elena, insieme possiamo.

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