Verso un’Italia non più cattolica?

la politica dei cattolici

Michele Marchi: Le riflessioni che seguono si muovono tra due eventi chiave della storia politica, sociale e religiosa del nostro Paese: cioè tra il referendum abrogativo del 1974 sulla legge che aveva istituito il divorzio e quello del 1981 sulla legge che regola l’interruzione di gravidanza. Siamo di fronte a otto anni nei quali cambia radicalmente la storia del cattolicesimo politico italiano. Cominciamo dalla questione del divorzio.

Paolo Pombeni: La questione dell’introduzione della possibilità di sciogliere il matrimonio civile ha una storia lunga nel nostro Paese: la rinuncia a proporre una legge in questo senso faceva già parte delle condizioni del cosiddetto Patto Gentiloni, quello con cui il cattolicesimo organizzato accettava di scendere in campo a sostegno dei liberali nelle elezioni del 1913. Notoriamente la Chiesa aveva chiesto il riconoscimento dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale anche durante i lavori dell’Assemblea costituente e i deputati DC, dossettiani inclusi, si erano «arrampicati sugli specchi» per sostenere che si trattava non di rispettare un precetto religioso, ma di conformarsi a una «legge naturale».

Ovviamente con l’evolversi dei costumi non era stato possibile resistere oltre e nel dicembre 1970 una legge promossa dagli onorevoli Fortuna e Baslini (un socialista e un liberale) aveva introdotto nel nostro ordinamento la possibilità del divorzio. Per lasciar passare questa legge la DC aveva però chiesto che si regolasse contemporaneamente la possibilità di tenere dei referendum abrogativi sulle leggi vigenti, così come era previsto dalla Carta costituzionale, ma come era impossibile fare per mancanza di una legislazione che ne regolasse le modalità di esercizio.

Capire cosa successe a questo punto non è semplicissimo.

Nel clima arroventato di quegli anni si sapeva che la parte conservatrice del mondo cattolico era pronta a scendere in campo urlando al tradimento della DC incapace di essere un baluardo contro la secolarizzazione. Dunque dapprima si pensò, suppongo, che consentire di avere a disposizione lo strumento del referendum potesse essere una valvola di sfogo verso quegli ambienti. Infatti, puntualmente si costituì un Comitato nazionale per il referendum sul divorzio, presieduto dal giurista cattolico Gabrio Lombardi, con il sostegno dell’Azione Cattolica e l’appoggio della CEI, che raccolse più di un milione di firme e ottenne quindi che il referendum venisse varato.

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Michele Marchi: Può indicare le ricadute politiche immediate dell’esito referendario?

Paolo Pombeni: Il tradizionalismo cattolico era sconfitto, ma esso aveva trascinato con sé la fortuna politica di Amintore Fanfani, che passò nell’immagine collettiva come un conservatore incapace di comprendere i tempi nuovi, facendo così dimenticare la sua brillante performance quando era stato una delle anime dell’«apertura a sinistra» fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. In questa occasione era tornata in campo anche una nuova manifestazione di dissenso cattolico, però abbastanza diversa da quella tradizionale del decennio precedente.

I «cattolici per il no», come vennero definiti dai giornali, erano un raggruppamento variegato, in cui a esponenti dell’ala moderato-radicale del dissenso (quelli delle frange più estreme erano ormai fuori da queste logiche) si aggiungevano esponenti di una cultura che era ancora in rapporto con la tradizione della sinistra democratico-cristiana, come Pietro Scoppola e Luigi Pedrazzi, e studiosi come Giuseppe Alberigo che erano principalmente interessati ai contraccolpi sulla Chiesa che avrebbe avuto l’integralismo delle posizioni di Gabrio Lombardi e soci.

Michele Marchi: La DC, a questo punto della sua evoluzione, deve anche “guardarsi le spalle”. Il PCI sembra essere in grado di trasformare il bipolarismo italiano da “imperfetto” in “perfetto”.

Paolo Pombeni: Vale la pena di sottolineare che proprio la sfida terrorista così come gli avvenimenti internazionali avevano spinto a riconsiderare il tema dei rapporti fra le forze tradizionali alla base del sistema politico italiano. In particolare la “questione comunista” non poteva più essere considerata nei vecchi schemi da Guerra fredda, soprattutto per l’apporto che il PCI aveva indubbiamente dato nel contenimento delle pulsioni da guerra civile strisciante e per il fatto che si trattava di un partito ormai inserito a pieno titolo nelle dinamiche parlamentari e anche di governo grazie alla sua forte presenza negli enti locali.

Da questo punto di vista il grande successo che il PCI colse nelle elezioni amministrative del 1975, quando, crescendo di ben 5,6 punti, raccolse il 33,4% dei suffragi ponendosi molto vicino al risultato della DC con il 35,2%, non faceva che ratificare il successo di un sentimento diffuso che vedeva nei comunisti una classe dirigente capace e moralmente rigorosa. Se oggi, a mio giudizio, andrebbe ridimensionata quella che divenne una mitologia, soprattutto incarnata dalla figura quasi ieratica del segretario Enrico Berlinguer, va però riconosciuto che si trattava di un fenomeno che chiudeva una stagione: l’alternativa fra moderati e sinistra come quella fra il diavolo e l’acqua santa era momentaneamente archiviata. Insisterei sul momentaneamente, perché Berlusconi avrà venti anni dopo il fiuto di capire che era un fuoco che continuava a covare sotto le ceneri.

Da Paolo Pombeni in dialogo con Michele Marchi, La politica dei cattolici, dal Risorgimento ad oggi (Città Nuova, 2015)

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