Valeva la pena di tentare

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Kalinga, in tagalog, la lingua locale filippina, significa prendersi cura, proteggere. È la sigla prescelta per il progetto di sostegno e di reinserimento sociale dei bambini di strada avviato da un gruppo locale di Umanità Nuova nella provincia di Quezon Ho ancora negli occhi le immagini sconvolgenti di un documentario di 50 minuti visto tempo fa su Raitre, girato tra ottobre e novembre del 2000 per le vie, per le carceri, nelle aule di tribunale e negli ospedali seguendo le tracce dei duecentomila ragazzi di strada di Manila. Il documentario è un viaggio tra le assurdità delle loro vite. Ernesto uccide la matrigna per vendicarsi della morte della madre. Ha 15 anni. Jun Jun non ce la fa e scappa, va via di casa. Non ha retto alle ore che ha dovuto passare appeso ad una corda a testa in giù, punizione che il babbo gli infliggeva solo perché irrequieto. Ma c’è qualcosa che stupisce di più. Jun Jun, Ernesto e altri quattro ragazzi protagonisti del documentario sono oggi educatori di strada di Medici senza Frontiere, che li hanno scoperti, formati, messi alla prova giorno dopo giorno, e li hanno infine inseriti nel loro staff, quasi una mano tesa verso i loro ex compagni. Sono essi, infatti, ad affrontare i quartieri più pericolosi, a cercare i ragazzi più disperati. A loro si deve se si stabilisce l’indispensabile rapporto di fiducia con i servizi sociali che rende possibile ogni futuro intervento. In questo contesto, prende rilievo l’esperienza che alcune signore impegnate in Umanità Nuova vanno portando avanti con successo da alcuni anni a Lucena, una città della provincia di Quezon a nord di Manila Erano al corrente della difficile situazione in cui versava l’unica struttura gestita dall’assistenza pubblica. Una sorta di rifugio per i ragazzi di strada, dove i giovani ospiti trovavano un tetto e un pasto, ma abituati alla vita del branco, difficilmente accettavano le più elementari regole della convivenza. Chelo Redor, che è farmacista, aveva modo di costatare come l’unico rimedio al “male di vivere” di cui soffrivano fossero le forti dosi di antidepressivi somministrate anche a bambini molto piccoli. Ne parlò alle amiche, che insieme decisero di far qualcosa. “Abbiamo fissato un appuntamen- to con la responsabile del centro di accoglienza per offrirle la nostra disponibilità. Ci ha accolte a braccia aperte, stupita del nostro interessamento”: è Ellen Ramas a raccontare, con grande trasporto e passione, gli inizi di questa impresa che ormai la impegna assieme a Chelo e ad altre da oltre cinque anni. Seguirono gli incontri per mettere a punto il progetto di intervento, e successivamente le prime visite all’ostello. “Eravamo quasi tutte mamme e nonne, ma – prosegue – ben presto ci siamo rese conto che tutto ciò che per esperienza o d’istinto credevamo di sapere sui bambini lì serviva a ben poco. Erano in atteggiamento di diffidenza, se non di ostilità, nei nostri confronti. Cinquanta paia di occhi che avevano già visto e subito tutto il male possibile, ci scrutavano impietosamente”. Si sforzarono, come previsto dal programma, di essere disposte a trascorrere del tempo con loro senza dire o far niente di particolare, già contente di non essere rifiutate. Poi, lentamente, un gesto, un sorriso, una parola serviva ad accorciare le distanze. “Con pazienza – continua – abbiamo iniziato a conoscerli per nome. Si sono lasciati pian piano aiutare nell’igiene personale e a tenere in ordine le loro stanze e le loro cose. Li abbiamo accompagnati dal medico e dal dentista, quando ciò era necessario “. “Un giorno, abbiamo anche suggerito – ricorda Norlie Navarez, un’altra del gruppo – che sarebbe stato bello se avessero preso l’iniziativa di pregare insieme. Così, nonostante qualche comprensibile difficoltà, hanno iniziato a dire una preghiera prima dei pasti e dopo cena, seguita, come è tradizione nelle Filippine, dalla benedizione che i bambini ricevono dagli anziani. Era commovente vedere come loro si precipitassero per riceverla dal personale del Centro, o da noi quando eravamo presenti”. Nella città non resta inosservato quel viavai delle signore più in vista all’ostello dei bambini di strada. E poiché i fondi governativi stanziati non bastano nemmeno per coprire le spese più urgenti, tutte le occasioni sono buone per sollecitare amici, parenti, conoscenti, organizzazioni religiose e civili. “I fatti da ricordare sarebbero tanti. Per esempio Chelo – soggiunge Ellen – che ora è ammalata di tumore, continua a provvedere ai bambini. Per il suo compleanno non ha voluto fare nessuna festa, anzi ha telefonato a parenti ed amici dicendo loro: “Se volete farmi qualche regalo, vi suggerirei di donarmi 50 paia di pantaloncini per i bambini di Kalinga.” Quando siamo andate a casa sua, abbiamo trovato il corridoio pieno di pacchi, scatole e dolci. Stava organizzando la sua festa, alla quale aveva invitato tutti i bambini. “Sono la nostra famiglia, loro aspettano – ci ha detto -; sono felice pensando alla loro gioia””. Si capisce allora come anche nei momenti difficili, il personale del centro ricorresse a lei con fiducia. Ricorda Norlie: “Un giorno Charina, un’adolescente che era stata vittima di violenza, aveva tentato il suicidio tagliandosi le vene. Era in uno stato di depressione e non voleva uscire dalla stanza. Gli assistenti sociali hanno allora chiamato la nostra amica, che si è recata subito da lei, in quella stanza in cui si era rinchiusa al buio. Hanno parlato per ore, ed alla fine la ragazza è uscita più serena”. Lo scorso dicembre, per festeggiare il Natale hanno lanciato tra gli amici un’iniziativa simpatica. “Abbiamo preparato un’impalcatura di fil di ferro a forma di albero – continua – ed abbiamo invitato i visitatori a contribuire alla sua decorazione. Alla fine è diventato un grande albero con ai piedi le strenne e tante buste contenenti il denaro raccolto nelle scuole della città. Il ricavato ci ha permesso di acquistare nuovi materassi ed anche abiti per tutti”. Da quanto mi vanno raccontando, capisco ora perché abbiano voluto denominare la loro azione a favore di questi bambini abbandonati proprio kalinga” (nella loro lingua, mi spiegano, equivarrebbe a “tesoro”): una parola intraducibile, per esprimere i mille accenti dell’amore, con cui ogni mamma filippina si rivolge al suo bambino. SE NE SALVAN POCHI I più fortunati sono quelli che le varie organizzazioni, sia di volontariato che governative, riescono a recuperare. Sempre pochi, comunque, di fronte al popolo di oltre un milione e mezzo di minori filippini che – secondo recenti stime dell’Unicef – vivono per strada. Se si considera poi che la metà degli 82 milioni di filippini hanno meno di 18 anni, si capisce in tutta la sua portata la gravità di questo triste fenomeno, comune ad altri paesi (vedi il Brasile) per altri versi con un grande potenziale di sviluppo. Così anche nelle Filippine, dove sono sparsi a pelle di leopardo in quell’arcipelago arlecchino di oltre settemila isole, la cui superficie totale è estesa quanto l’Italia.

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