Una “capitale” arbëreshë

Lungro, piccolo centro italo-albanese in Calabria, festeggia i primi cento anni dall’istituzione dell’Eparchia, la diocesi cattolica di rito greco-bizantino

 

Lungro, 13 febbraio 2019. Folate gelide con assaggi di nevischio spazzano questo paese del Cosentino adagiato sul declivio del monte Petrosa, incanalandosi nelle stradine, nei sottoportici, nelle piazze. A quest’ora serale è già buio, buio forato dalla luce dei lampioni. Qualche raro passante appare e scompare come un’ombra; le poche finestre illuminate danno l’immagine desolata di un centro in via di spopolamento. Incurante del freddo sul davanzale di una finestrella, un gatto bianco e nero non mi degna di uno sguardo. Mi sembra di muovermi in un posto irreale, sul quale gli anni, anzi i secoli, hanno amalgamato sotto una patina uniforme abitazioni popolari e palazzotti d’un certo pregio. Le attrattive del paese? Certamente la sua posizione elevata nel territorio del Pollino e la cerchia naturale che si spalanca attorno: boschi di faggi e castagni, vigneti e colture miste, lungo una visuale che si estende fino alla piana di Sibari.

lungro

Più m’inoltro verso il centro urbano, più lo scopro animato; mi giungono alle orecchie canti in una lingua ignota. Poi, in uno slargo, si profila maestosa su un’alta scalea la cattedrale dedicata al patrono san Nicola di Mira, in sostituzione di una precedente chiesa distrutta da un terremoto. Ricca di affreschi e mosaici, risplendente di luci e di ori, con tre stupende porte bronzee rappresentanti episodi del Vangelo, della vita della Madonna e di san Nicola, sembra concentri in sé tutta la bellezza, la magnificenza, il decoro, l’anima di Lungro.

È gremita di abitanti del posto, ma anche di gente venuta da lontano in auto o in torpedone per un appuntamento speciale: si celebra infatti il primo centenario della nomina di questa cittadina a sede dell’Eparchia greco-cattolica, che raccoglie sotto la sua giurisdizione 26 comunità italo-albanesi di rito bizantino presenti nell’Italia continentale.

La lunga storia di questa minoranza etno-linguistica (gli arbëreshë) inizia nella seconda metà del XV secolo, quando dall’Albania, dall’Epiro e dalla Grecia albanofona cominciano ad arrivare le prime ondate di profughi a causa di un’invasione, quella turca, contrastata per quasi 25 anni dall’eroe nazionale Giorgio Castriota Scanderbeg; migrazioni continuate anche dopo la caduta di Costantinopoli e la morte, nel 1468, dello stesso Scanderbeg (un suo busto bronzeo fa mostra di sé qui nei pressi).

Furono quei profughi, intorno al 1486, a rivitalizzare il preesistente agglomerato rurale, loro in definitiva a fondare Lungro, dando all’abitato la sua tipica organizzazione circolare fatta di rioni distinti per gijtonia (vicinato) attorno a due piazze.

Col tempo, Lungro divenne uno dei più importanti centri di spiritualità bizantina e cultura greca in Italia. Ma a quale prezzo! Inizialmente accolti benevolmente dalle comunità locali, tra queste e i nuovi arrivati ci furono continue tensioni dovute alla diversità di lingua, di tradizioni, di riti, come pure alla comune attività di pastorizia che li rendeva concorrenti. Numerosi preti albanesi, rimasti fedeli al patriarca di Costantinopoli, finirono in carcere per non aver voluto abbracciare il culto latino. Solo grazie alla loro tenacia gli albanesi di qui riuscirono a mantenere viva la propria identità di cattolici di rito greco-bizantino. Fino al riconoscimento ufficiale da parte della Santa Sede, nella persona di papa Benedetto XV, che il 13 febbraio 1919 istituiva l’Eparchia: un gesto che sanava ferite secolari ed ora suscita la commossa gratitudine dei loro discendenti.

Eparchia Lungro

Intanto, accolto da canti in antico albanese, fa il suo ingresso in chiesa il corteo di vescovi di rito latino e greco riconoscibili dalle vesti liturgiche e dalle mitre di diversa foggia. Sono presenti il prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, cardinal Leonardo Sandri, i vescovi dell’Esarcato apostolico di Grecia, i presuli dell’arcidiocesi della Chiesa cattolica d’Ungheria, quelli della Conferenza episcopale calabra, dell’arcidiocesi di Scutari e il vescovo di Piana degli Albanesi. Figure barbute e maestose alcuni, sembrano usciti dai mosaici moderni, ma in stile bizantino, che decorano le navate, l’abside e la cupola. Li seguono adulti e ragazzi nei costumi tradizionali dei giorni di festa: le donne indossano due sottogonne di raso rosso e blu, una camicia bianca merlettata sotto un gilé azzurro ricamato in oro, uno scialle rosso (per le sposate) ed esibiscono acconciature con nastri intrecciati; gli uomini invece pantaloni bianchi con strisce laterali rosse o blu e ricami in giallo, camicia bianca e gilé nero ricamato, e come copricapo il tipico cappello bianco di lana a forma di cono.

A stento il corteo si fa largo tra due ali di popolo in festa. Ai posti d’onore si assiepano autorità civili ed ecclesiastiche, delegazioni diplomatiche e rappresentanti delle istituzioni religiose di tradizione orientale in Europa. Non mancano il presidente della Repubblica di Albania Ilir Meta egli ambasciatori di Albania presso l’Italia e la Santa Sede.

Presieduta dall’eparca Donato Oliveiro, inizia la Divina liturgia con i suoi suggestivi cerimoniali al di là e al di qua dell’iconostasi che separa il vima, lo spazio riservato ai celebranti, dalla navata destinata al popolo. Grazie alla ricchezza dei suoi simboli e alla peculiarità delle sacre icone di “rendere visibile l’invisibile” ai fedeli di ogni livello è stato possibile preservare attraverso i secoli un patrimonio spirituale, liturgico, linguistico e culturale la cui importanza appare soprattutto oggi in cui il dialogo ecumenico tra diverse confessioni cristiane punta all’unità della fede senza mortificare le legittime specificità di ognuna.

Intervistato ieri sull’argomento, così si esprimeva monsignor Oliveiro: «San Paolo VI definì i fedeli italo-albanesi quasi precursori del moderno ecumenismo. Siamo chiamati dunque, come Eparchia, a pensare in termini ecumenici, a vivere per l’ecumenismo, a far fruttificare il nostro essere cattolici di rito bizantino in chiave ecumenica». E aggiungeva: «Il nostro popolo è una realtà assolutamente singolare, così come la stessa Eparchia, sia per le Chiese d’Oriente sia per quelle d’Occidente. Fedele alla propria tradizione di fede, il popolo arbëreshë è testimone vivo della tradizione orientale ed è oggi, nel tempo del cammino ecumenico, costruttore di ponti. Per il mondo globalizzato, siamo modello di conservazione dell’identità di un popolo, nel mantenimento dei caratteri identitari, etnici, linguistici, religiosi, delle comunità arbëreshë».

La sfida, oggi, è come tramandare questo prezioso patrimonio alle nuove generazioni, tenuto conto che qui, come del resto in tutto il Meridione, è accentuato il fenomeno dei giovani costretti a lasciare la propria terra per motivi di studio o lavoro.

 

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