Una avaro sulle macerie

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Emergono dal buio come i fantasmi di un incubo. Risvegliati dall’oscurità del sonno dell’avaro Arpagone, si radunano sotto al suo rifugio: un letto sbilenco inerpicato sopra sopra una torretta di mobilio simile ad un cumulo di macerie. Sono i potenziali attentatori della sua ricchezza, un campionario di umanità – figli, servitori, donne – che ruota attorno al personaggio prototipo della tirchieria. Il segno più evidente di questa messinscena di Gabriele Lavia de L’Avaro, tesa ad indagare una zona oscura del celebre testo di Moliére, è dato dalla bellissima scenografia (di Carmelo Giammello) di un paesaggio da day-after: una landa di sabbia con dei relitti di barche, chiusa dalla facciata sghemba di un palazzo sprofondato nel terreno. Un luogo terremotato, emblematico di un disfacimento non solo fisico ma morale: la patologia di un’avarizia vissuta come ragion di vita, che fa combattere il taccagno contro la vecchiaia e la morte. L’attaccamento alla roba lo ha reso schiavo della paura: paura di spendere, di usare le cose perché si consumano, di mangiare, e quant’altro. Ma soprattutto di amare. Perché quello di Arpagone è un vizio che vede nel piacere quasi fisico del possesso, una sorta di compensazione all’impossibilità di amare. Vizio che lo mette anche contro i due figli, Cleante ed Elisa, che anelano ad impalmare le persone da loro rispettivamente amate. Una di esse, Mariana, è desiderata in sposa dall’avaro per la virtù della morigeratezza, pur avendo quarant’anni meno di lui. Alla fine tutto si aggiusta, ma solo dopo che la cassetta di monete, prima trafugata, gettandolo nella più amara disperazione, gli viene restituita come merce di scambio per condurlo alla ragione. Tra le molte edizioni dell’Avaro, questa, travolgente, di Lavia, ha la capacità di sorprendere rivelandoci in maniera nuova quanto la commedia, sotto il velo comico riveli sempre più incombente, col passare dei secoli, la tragedia. Lavia, in abiti da penitente e in adorazione del dio denaro, ne fa un caso clinico: tira fuori continuamente un fazzoletto macchiato di sangue per i continui eccessi di tosse che lo condurranno alla morte. Colloca in cielo – invece che seppellirla in terra – la cassetta del tesoro, nascosta nella graticcia del teatro e calata con delle corde. Sono macchiette divertentissime tutti gli altri personaggi: la figlia (Manuela Maletta), con minigonna e anfibi, mastica chewin-gum e gesticola forsennatamente; il figlio (Lorenzo Lavia), capelli biondo- platino e cresta, veste punk e ha movenze da dandy; il servo fidato Lorenzo (Francesco Bonomo), sembra uscito da un cartoon e cammina da automa. E sono, ancora, esilaranti la Frosina di Clotilde Sabatino, il commissario di Luca Fagioli, il cuoco e stalliere Andy Luotto. Spettacolo da vedere.

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