La sicurezza e la quotidianità

Il decreto sicurezza appena approvato pone interrogativi di fondo sul senso della nostra coesistenza. Come reagire? Quando il mondo diventa il nostro orizzonte

Mentre scrivo queste righe, giù in cortile Abdur (bengalese) si sta occupando della mia povera macchina impolverata che certo tornerà a brillare. E sul terrazzo si stanno asciugando le 15 paia di mutandine da bambino arrivate e già destinate ai figli di Fane. Una telefonata intanto mi avvisa che una nonna novantanovenne dal bacino fratturato ha bisogno di una brava signora (subito!… sarà sicuramente straniera) che si occupi di lei nelle prossime notti in ospedale. Insomma: come si fa a raccontare la quotidianità di quel fazzoletto di “mondo unito” che s’è infilato pian piano nelle nostre vite?

Molti anni fa lo sognavamo, lo cantavamo a squarciagola, in attesa che arrivasse. Oggi è qui, con quei volti miti diversamente colorati, con le storie tragiche e con meravigliose generosità.

Prima dodici, poi altri dieci ragazzi africani, poi qualche famiglia… hanno trovato casa e lavoro nel nostro piccolo borgo di montagna. Non siamo diventati per questo più poveri, no! Più sobri certamente sì, più liberi – per decenza – dallo shopping compulsivo d’anni fa. E poi calcoliamo come ricchezza la sofferenza penetrante di guerre irrisolte in nazioni lontane dove sono rimaste le famiglie dei nostri amici profughi. Il mondo adesso è il nostro orizzonte.

Sembra parlare un’altra lingua il decreto “sicurezza bis”. Se tanti miei connazionali lo approvano un motivo ci sarà. E questo motivo mi riguarda. Devo, voglio capire! Il ragionamento di partenza tocca un punto serio della questione ed è la domanda: ma possiamo accoglierli “tutti”? No, dice il ministro dell’Interno. E in questo coglie nel segno e interpreta lo sconcerto prodotto su di noi dalla vista di quelle improbabili barche e di quei corpi stipati e protesi verso un miraggio di salvezza, così diversi da noi quanto lo sono irriducibilmente il bianco e il nero. La risposta del governo appare risolutiva e semplice: chiudere i porti, ogni accesso, ad ogni costo. Un motto che richiama tanto un grido di guerra: “non passa lo straniero”. Che poi sia lecito, che sia fattibile, non importa. Il problema è risolto per decreto e possiamo riaddormentarci tranquilli: “prima gli italiani!”.

Il ragionamento non è banale e può contare su una diffusa atavica incapacità di pensarci dentro una comunità internazionale. “Noi”, gli italiani, in quanto cittadini abbiamo diritti “esigibili” di fronte allo Stato. Gli altri, gli stranieri, ne hanno sì, forse, alcuni, molto condizionati, mutevoli ad ogni cambio di governo e di congiuntura economica. L’elenco dei diritti “umani”, che nominalmente accomuna i quasi nove miliari di persone che abitano il pianeta, suona poco più di un vago appello privato di un’autorità che lo renda effettivo. Persino i Costituenti, quando sancivano il diritto d’asilo, non potevano calcolare che i richiedenti tale diritto potessero un giorno arrivare così, a migliaia, sulle nostre belle coste ospitali con i turisti.

Gli artisti, più dei parlamentari, sembrano aver colto l’inquietudine e la lacerazione nella coscienza collettiva che queste migrazioni hanno prodotto. Non si contano le opere teatrali o cinematografiche, le mostre di pittura o i reportage fotografici che ne fanno oggetto di meditazione. Dalle profondità del nostro essere allora si fanno strada domande più profonde che esigono risposte meno superficiali… Chi sono quelle persone – e quei ragazzini soli – che rischiano così tanto per partire? E perché partono? Da cosa fuggono e cosa cercano?

L’avventura di un contatto personale con qualcuno di loro, la reciprocità vitale che spesso ne nasce, il fiorire di iniziative legate all’accoglienza, fanno intravvedere una novità inedita di questo tempo che interpella il nostro essere “politici”, ossia gente fatta per trovare l’unità con risposte concrete e inclusive.

Certo, restando sul piano del diritto così come oggi è codificato, non possiamo accoglierli… “tutti”. Nemmeno i partiti che sul decreto si stracciano le vesti affermano il contrario. Nessuno – in Italia o in altri Paesi, o nelle aggregazioni sovranazionali – sembra capace di avanzare una risposta positiva e pratica, condivisa e comprensiva delle tante angolature del fenomeno e delle sue dimensioni. A livello amministrativo una risposta interessante è arrivata dai Comuni del Welcome, che dell’accoglienza hanno fatto una risorsa, incrociando il problema dello spopolamento dei piccoli centri con quello dei rifugiati. Ma ora che i porti sono chiusi e le risorse drasticamente virate ad altri scopi “di sicurezza”?

Ben sappiamo quanto la società “civile” abbia dimostrato fantasia e generosità nel farsi carico di domande straordinarie di accoglienza. Continuerà a farlo anche nella nuova cornice che guarda con sospetto l’ospitalità e sanziona come criminale il “salvare vite in mare”?

Per effetto del decreto “sicurezza bis” oggi la coscienza della fraternità a raggio mondiale è sfidata a verificare il suo progetto con le esigenze della traduzione politica. Non basta più affermare principi. Occorre spiegare e convincere che essi sono ispiratori di soluzioni di convivenza migliori del “chiudere i porti” e possono mobilitare risorse ed energie ad una nuova inedita impresa.

Non basta più nemmeno reclamare diritti per tutti, dato che si fa chiaro che essi sono disponibili ormai solo per una piccola porzione dell’umanità, sempre più ricca e sempre più esigua, con tanto di muri protettivi e di filo spinato. Allora occorre rovesciare la prospettiva. Avere il coraggio di partire dai “doveri umani”, esattamente come li spiegava Simone Weil: “C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano”.

Tale obbligo non dipende da una norma ed è tradotto nell’imperativo di amare “tutti”, come punto di arrivo del progresso dell’umanità. La sfida delle migrazioni ci richiama a questo obbligo incondizionato, nella modalità possibile dell’attimo presente, nella scoperta fiduciosa del dare e del ricevere che moltiplica i beni e le opportunità. Anche questo ci può arrivare con le migrazioni: la sorpresa del rinnovamento e dell’inveramento delle nostre “comunità”, il loro farsi “popolo” in ogni nazione, soggetto politico partecipante al rinnovamento degli ordinamenti giuridici e dei sistemi economici nella prospettiva della sostenibilità. Un popolo così, libero dalla paura dell’altro e determinato nell’arte di amare, riscriverà le norme sulla “sicurezza” e ridarà alla parola stessa il suo senso più vero: volontà di “prendersi cura” gli uni degli altri.

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