Un nuovo Pollini

Musiche di Chopin e Debussy. Roma, Accademia Santa Cecilia. Finalmente libero, a sessant’anni Pollini fa il gran salto: abbandonarsi alla gioia del suonare. Dalla perfezione cristallina, sostenuta da un intelletto lucidissimo, che ha incantato mezzo mondo con un repertorio da Bach a Stockhausen, ora perviene alla libertà della “fantasia”. Il suo Chopin è arrovellato, passionale: la linea del canto puro, nel Notturno n. 1, si oscura nei cromatismi insistenti, diventando, nel Notturno n. 2, quasi un cozzare di sentimenti. Altro che dolcezze chopiniane! Nelle quattro Ballate, Pollini va oltre il dato filologico, “inventando” sfumature, sonorità, raddoppi: più che al dato scritto sembrano appartenere a quello interno. È come se il pianista volesse rivelare a Chopin chi è Chopin, oggi. Pollini lo può fare, grazie alla lunga frequentazione col musicista, e in forza della propria immensa sensibilità. La medesima libertà interpretativa – che alla lontana può ricordare un Rubinstein, e non è da confondere con “arbitrio”, ma come atto di maturazione – il Nostro la riserva al Libro Secondo dei Préludes di Debussy. L’abusata definizione di musica impressionista” Pollini la accantona, non convinto dei singoli “quadri” pianistici dove la nota scivola come la luce nelle tele dei pittori. Pollini piuttosto vede in Debussy un autore che chiude un’epoca e ne apre un’altra: il Novecento di Richard Strauss, Puccini, Mahler, Stravinskij suoi coetanei, e l’arte frammentata, acuta, oscillante di quel tempo. In verità, c’è un colloquio ormai, fra il pianista e i musicisti, da pari a pari. Ed è questa forse la nota più vera dell’approdo interpretativo polliniano. Libero dal gelo della sola ragione, egli esplora, trova nuovi approcci e li rivela subito: Chopin, re della fantasia, Debussy, voce del disincanto. Stanco ma controllato, il pianista si dona a un auditorio strapieno, incandescente. Ed è bis. Con Chopin e Debussy, qui, ora, vivi. Controcanto Mazzel, sempre piu divo A Padova, per Giotto, 900 invitati nella chiesa degli Eremitani. Maazel guida la sua Filarmonica di Londra in Beethoven (Leonora n. 3) e Dvorák (Sinfonia “dal nuovo mondo”). Successo strepitoso per due brani che con Giotto e l’Italia non c’entrerebbero: perché non, almeno, un po’ di Vivaldi e Verdi…? Comunque, l’orchestra è all’altezza della fama, il leggendario suono morbido, l’acustica esalta gli ottoni e abbassa gli archi: il prodotto è lussuoso, solletica benissimo i sensi, come oggi si vuole. Purtroppo, manca l’anima. E Maazel è il sacerdote-esteta di questo rito spettacolare. Non invecchi, maestro, per favore: ed esca, se può, da questa “notte”, accettando un po’ di dolore e un po’ meno di starsystem. Salieri è un grande Penalizzato da un film bello ma antistorico come Amadeus, Antonio Salieri si prende la rivincita al Festival di Pasqua di Roma. Grazie a Claudio Scimone che, alla testa dell’orchestra e coro dell’Opera romana e con un impegnato quartetto di solisti (Gasdia, Custer – la migliore -, Secco, Regazzo), ha diretto con entusiasmo la Passione di Cristo su testo di Metastasio, anno 1777. Un’interpretazione, che, a parte i tagli e la tinta pre-romantica, ha avuto il merito di far conoscere al pubblico un grande autore. La sua è una musica sempre nobile, con punte di vera bellezza: basti il celebre “Dovunque il guardo giro/ immenso Dio ti vedo” per contralto e coro, una delle migliori “preghiere” in musica, per melodia, colore strumentale, equilibrio distributivo. Non è un mediocre, Salieri: virtuosismo, dramma, fede, con armonia settecentesca, commuovono, parlano. Con buona pace di Forman e del suo film.

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