Un giorno per Pietro

Un giorno per Pietro La storia ha avuto inizio quando mi sono accorta di aspettare il primo figlio. Sono stati momenti di felicità unica, indescrivibile per me e Andrea. Un piccolo essere ci chiedeva di fargli spazio nella nostra vita, di accoglierlo e proteggerlo. Tutto è andato liscio sino alla seconda ecografia. Ricordo bene quel momento. Eravamo contenti, discutevamo sul sesso del bambino e sul nome che gli avremmo dato, come se fossero queste le questioni principali di una gravidanza. Invece, ben altri sarebbero stati i problemi. Dispasia renale bilaterale, assenza di liquido amniotico, immaturità polmonare: questi i risultati degli esami. Sono medico, e quei termini suonavano come una condanna a morte. Non riuscivo a parlare, ma solo a piangere, pensando a quel bambino tanto atteso che mai avrei potuto stringere tra le mie braccia. Con Andrea abbiamo pregato, chiedendo a Dio la forza e la luce in questa lotta per la vita di nostro figlio. Iniziammo a consultare vari medici. Questa volta ero io la paziente, e ciò mi è servito a sperimentare sulla mia pelle l’eco che hanno le parole in chi è nella sofferenza. Ci ripetevano le frasi più scontate, del tipo: Il bambino morirà sicuramente dopo la nascita, quindi l’aborto mi sembra la miglior soluzione, anche perché vi risparmierete qualche dolore. Qualcosa dentro di noi si ribellava a tutte quelle frasi che parlavano solo di morte. Davvero la vita dell’uomo non vale niente, e la sofferenza è inutile? Era difficile far comprendere ai nostri amici e parenti che le motivazioni profonde della nostra scelta di continuare la gravidanza anche in quelle condizioni erano scritte nel nostro aver generato un figlio, che non ci aveva chiesto di nascere. I primi giorni furono molto duri. In fondo, ci veniva proposto il male minore. Tutti parevano convinti che fosse meglio per noi evitarci il trauma di mettere al mondo un bambino malformato e comunque destinato alla morte. Ciò mi portò a vivere inizialmente la gravidanza come un tempo di lutto, di attesa che il bambino non si muovesse più. Il dolore non era solo fisico. Attorno a noi sentivamo che tanti non capivano, e ci disapprovavano. Con i nostri genitori, particolarmente, dovemmo superare il ricatto affettivo, perché loro non tolleravano di veder soffrire i loro figli. Era difficile comunicare loro quanto stavamo vivendo, di quanto il nostro bambino in quell’esperienza così dolorosa ci stesse facendo sperimentare la preziosità di ogni attimo di vita. Erano doni speciali. Mai come allora con Andrea abbiamo vissuto in pienezza la realtà del nostro matrimonio. Di essere cioè veramente due in una sola carne, un’anima sola. Abbiamo potuto sperimentare anche l’amore delicato e concreto di tanti amici. L’8 settembre scorso è nato Pietro, il giorno dopo è morto, dopo aver ricevuto il battesimo. Mio marito era stato lontano dalla chiesa finché non era entrato nel cammino neocatecumenale, pochi mesi prima della gravidanza. Da allora ha intrapreso un itinerario di ritorno a Dio, che ci coinvolge come coppia. È pro- prio da Andrea che ho sentito dire il giorno del funerale: Oggi andiamo ad un matrimonio, il matrimonio di Pietro con il Regno dei Cieli. Ora per noi Pietro, nostro figlio, non è uno sconosciuto. Lo abbiamo visto, ha ricevuto le nostre cure e le nostre carezze. E questo vale, questo conta. Valeva la pena, per noi, dedicargli nove mesi della nostra vita, nell’attesa che venisse al mondo. Quel forte dolore al polpaccio Una banale contrattura muscolare, un’embolìa quasi mortale. E un crocifisso senza gambe. Mi chiamo Mauro, ho 43 anni e vivo a Perugia. Uscendo dal lavoro, mentre attraversavo la strada, ho sentito un forte dolore al polpaccio. Non riuscivo più a camminare, né a poggiare il piede per terra. Dai primi accertamenti emerse che si trattava di uno strappo muscolare dei gemelli del polpaccio con conseguente ematoma. Nulla di grave, anche se l’angiologo mi prescrisse di tenere una calza elastica con alto grado di compressione della gamba. I giorni successivi, il quadro è andato migliorando, e sono riuscito a fare qualche passo, anche se il versamento era ancora diffuso, il dolore permaneva soprattutto la notte non mi consentiva di dormire. Un’esperienza nuova per me, che ho sempre goduto di un’ottima salute, praticando vari sport. Questo malessere mi mise un po’ in crisi, facendomi riflettere su come d’improvviso può cambiare la vita di una persona. Ripresi tra le mani Il grido di Chiara Lubich. In quel libro piccolo, ma denso di contenuti spirituali, che credevo di conoscere bene per averlo letto più volte, alla luce di quanto stavo vivendo mi apparve un vademecum prezioso. Anche per me veniva in qualche modo l’ora del mio grido. Così, per la prima volta, mi trovai a dare il contributo ad un incontro di dialogo con alcuni cittadini stranieri residenti nella mia città non con la mia partecipazione attiva, ma offrendo la mia sofferenza per la sua buona riuscita. Una sera, ripercorrendo quei momenti, avvertii che Dio mi stava preparando a quanto stava per succedere. Era come se mi stesse preparando ad un particolare appuntamento. D’improvviso, infatti, mi sono sentito male ed ho perso conoscenza. Per fortuna a casa c’era mio figlio Daniele, di 12 anni, che subito ha telefonato spaventato alla mamma, Grazia. Mia moglie è infermiera. Accorse immediatamente, praticandomi i primi soccorsi. Le condizioni apparvero subito gravi, poiché si trattava di un’embolia polmonare massiva. Durante la corsa all’ospedale, che per fortuna è vicino alla nostra abitazione, mentre le forze mi abbandonavano, sentivo nell’anima una grande pace, che non mi abbandonò nemmeno in terapia intensiva, vedendo che i medici erano in grande agitazione perché non riuscivano ad infilarmi un altro ago in vena. Mi arrivò ovattata la voce di un’infermiera, che diceva Ce lo stiamo perdendo, mentre si facevano sempre più deboli i battiti del cuore. Siccome non c’erano posti letto disponibili, i medici mi avevano sistemato in una barella ed ero costretto a tenere il viso girato proprio in direzione di un crocifisso appeso alla parete. Pareva che fosse stato dimenticato lì da tanto tempo, perché era senza gambe, piuttosto malridotto. Ma fu proprio questa sua impotenza, che mi condusse a parlare con lui a tu per tu. Con confidenza gli ho detto di essere pronto a fare la sua volontà… Però, in quegli istanti avevo scoperto quel grande tesoro che è nelle nostre mani, e che sarei voluto rimanere per comunicare a Daniele e a Grazia questa scoperta, come non ero riuscito a fare fino ad allora. Vedevo come in un film la mia esistenza, piena di vuoti di amore, ed avrei voluto colmarli. Non saprei dire come sia successo, ma poco dopo, finalmente i medici riuscirono a infilare l’ago e ho avvertito che nel mio corpo riaffiorava la vita. Ora la ripresa è lenta, ma a me sembra che Dio mi abbia voluto dare un’altra possibilità, una seconda vita, affinché la spenda meglio, facendo tesoro di questi momenti speciali. Mauro – Perugia

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