Un epos siciliano

Arriva al Lido "Baarìa", attesa ultima opera di Giuseppe Tornatore. Un'epopea spettacolare, che stupisce ma non commuove.

Venezia numero sessantasei apre con il kolossal di due ore e mezzo diretto da Giuseppe Tornatore, accolto bene dal pubblico e con diversi distinguo dagli addetti ai lavori. Non gli ha giovato, a dirla tutta, la definizione di “capolavoro” emessa da Berlusconi (che forse il film non l’ha proprio visto), perché, come ha ammesso lo stesso regista, certe cose non si dovrebbero dire prima che il film venga visto…

 

Ma andiamo oltre. Settant’anni di storia italiana dal fascismo ad oggi in un paesino presso Palermo, Bagheria, che da borgata si trasforma in cittadina: simbolo della storia (?) della Sicilia e dell’Italia.

Diciamolo subito: che sia un capolavoro, non lo si direbbe. 25 milioni di euro, sei mesi di riprese, migliaia di comparse, recitato in siciliano stretto – per fortuna c’erano in sottotitoli in italiano – per un racconto lunghissimo che ripercorre l’homo siculus con le sue tradizioni ancestrali, i conflitti con la mafia, la guerra, le vittorie social-comuniste e l’egemonia mafiosa e democristiana che spiegano certo la tendenza alla spettacolarità. Il film presenta risvolti politici, perché il protagonista Peppino (alias Tornatore stesso, sotto certi aspetti) rivive il passaggio da una tradizione pastorale antichissima all’impegno comunista, poi disilluso, fino all’oggi.

 

Due sequenze aprono e chiudono il film: all’inizio un ragazzino corre lungo la strada polverosa, quasi sollevandosi al cielo con la fantasia, tra case di pietra; alla fine un altro bambino corre, ma fra casermoni attuali, in un paese che lo scempio edilizio ha abbruttito. La storia del semianalfabeta Peppino che si “redime” grazie all’impegno sociale, restando un idealista, è bella, ma rischia di venire soffocata dall’eccesso di personaggi minori e minimi, con cui Tornatore, passando dal comico al grottesco, dal surreale al nostalgico, condisce il lunghissimo racconto.

 

È certo un epos, percorso da una grande tristezza – molto siciliana e mediterranea – e da un fondo di disillusione per un mondo che il ricordo rende meno duro, pure fra le asprezze. Certo, Tornatore dirige al meglio i numerosi attori professionisti (la Bellucci, la Sastri, Placido, Briguglia, Lo Verso, Lo Cascio – che fa il matto – Gullotta…) ai quali regala camei più o meno lunghi e riusciti. I quali però finiscono per rendere pesante, barocco, il film, volendo dire tutto di tutti. Lo spettacolo magniloquente è assicurato dalla musica di marchio Morricone (fin troppo presente, avremmo voluto maggiori pause e silenzi), dalla fotografia di Enrico Lucidi colorata e luminosissima.

 

Tornatore si conferma autore talentuoso, ma la storia di Peppino e della sua donna, ben resi da Francesco Scianna e Margareth Madè, rischia di rimpicciolirsi in un prodotto ambizioso che involontariamente guarda un poco anche al linguaggio della fiction.

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