Un amore più forte della guerra

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Così è Giovanni d’Alessandro: in una stagione di bestseller brutti e fortunati, che un pubblico sbandato beve e subisce, lui ti dà, pubblicandolo con Rizzoli, un racconto deliziosamente anacronistico, tale ovviamente rispetto ai magri tempi letterarioculturali che sono essi anacronistici rispetto a sé stessi, credendosi progressivi. Un racconto schiettamente italiano di guerra e di amore, mirabile nella relazione indefinibilmente profonda tra la storia, scrupolosamente e precisamente documentata e presente, e l’invenzione, che a quella storia – il dramma e la tragedia dell’Abruzzo postfascista lacerato dagli occupanti tedeschi e scriteriatamente bombardato dagli Alleati – mitemente, sapientemente si conforma, conferendole l’odore-sapore dell’esistenza in atto, che solo il vissuto particolare può umanamente far risaltare. Il fatto è che D’Alessandro ha reso sua fino in fondo, e non solo per cultura ma per sensibilità poetico- narrativa, la lezione di Manzoni: dal quale vero e verosimile sono stati indissolubilmente congiunti, anche quando l’autore dei Promessi sposi si era pentito del loro vincolo e lo credeva impossibile, e però all’arte assegnava (nel dialogo Dell’invenzione) un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente : come solo il crisma e lo stigma della storia veraverosimile sa e può dare. Infatti Manzoni e con lui D’Alessandro (e la pervicacemente non ancora riconosciuta Elena Bono) hanno pochi compagni ma grandi e grandissimi: Pasternak, V. Grossman, Tolstoj, Dostoevskij. Ada è una giovane vedova con due figli, bella e duramente colpita dalla morte del marito, che però le aveva raccomandato: bisogna volere ai vivi lo stesso bene che ai morti e non bisogna lasciare che i morti rubino la loro vita; e lei proprio in quel momento s’era tagliata con un bicchiere rotto (sapienza del correlativo oggettivo) e aveva antiveduto il suo futuro spento in cui il sopravvivere avrebbe ucciso il vivere. Ma poi era entrato nella sua vita oscurata un soldato austriaco buono e innamorato, e lei aveva risposto al suo amore, mentre il circondario prendeva a giudicarla sempre più ottusamente e velenosamente, bollandola calunniosamente – da qui il titolo del libro, necessitato e non scandalistico -come la puttana del tedesco. Se ne avessi lo spazio dovrei a questo punto documentare una ventina, almeno di frasi con le quali lo scrittore accompagna, discretamente e qua e là come a caso, l’affiorare dell’amore in Ada, da quando si accorse di arrossire a quando accetta lucidamente la piena flagranza del sentimento: Una voce senza suono le aveva detto, allora: mi vedi? sono io, l’amore venuto per te (…). Non ti punirò, ti farò anzi un regalo: un’immagine. La farò riemergere quando meno te l’aspetterai. Ti lascerò dentro labbra sorridenti, sopracciglia alzate, pupille color oro che brillano nel guardarti e tu le riconoscerai. Ada sa che la gente la condannerà, con l’incomprensione che sempre scatena un falso rapporto tra giudice e imputato: Il giudizio – che è l’eterna veste di chi non vive – avrebbe potuto avvolgere implacabilmente e velare la tenerezza, perché le voci che parlano dall’esterno dell’amore sono sempre più forti, non capendo la debolezza in cui sta la sua essenza. Ma non può impedirsi di amare un giovane che per il momento non può sposarla, ma la sposerà perché la trova troppo troppo bella. L’amore – commenta manzonianamente D’Alessandro – è fatto di parole esagerate, o non ha voce.(…) E non importano le parole dell’amore, ma come si dicono. Il giovane Helm viene ferito assai gravemente, sta per morire, mentre Ada (e qui altrettanto manzonianamente l’autore sa fare dei suoi personaggi degli eroici non-eroi) grida dentro di sé una preghiera che non trovava parole abbastanza disperate per salire al cielo. Ma Helm si salva, anche per l’assoluta dedizione di lei; e riprende con la loro microstoria stentata la macrostoria rovinosa e tragica di tutto un popolo, quello sulmonese, vessato, affamato, trucidato. Tra disagi d’ogni genere e umiliazioni cocenti – come conosce bene D’Alessandro la pochezza sguaiata degli uomini non attraversati, anche inconsapevoli, dalla grazia – Ada continua a lottare per i figli anche quando il suo uomo, che le si è promesso, è trasferito e lei ne perde le tracce. Finché lui inopinatamente ritorna, e si sposano, e vivono finalmente una vita libera dalla guerra, sempre più degna e lieta, con figli e nipoti; vita in cui D’Alessandro non si perita affatto, come farebbe quasi ogni altro, di accompagnare, con lieta vicinanza, il bene che non fa notizia. Vorrei ribadire con tutto il dovuto rilievo ciò che ho già detto per cenni: che i due protagonisti non sono eroi (anche se Ada si comporta a un certo punto eroicamente assistendo due fuggiaschi inglesi) né persone eccezionalmente dotate di idealistiche o scettiche intelligenze; sono due persone normali reciprocamente innamorate perché lo sono, ancor prima, della vita stessa. Vediamo infine Ada, vecchia ultraottantenne, che sente ancora una volta il richiamo degli òrapi, erba raffinata e lussuosa che durante la lunga povertà si procurava con faticose e rischiose ascese sul monte Morrone, sia per cibo che per barattarla con cibo per i figli; e da cui ora è di nuovo attratta, dopo la morte del marito, come dalla vita, stessa che è molto più tosta della morte, quella vita messa terribilmente alla prova e di cui gli òrapi sono sempre stati per lei simbolo di libertà pericoloso e regale. Così si trova ad aver fatto uno sforzo ormai eccessivo, che quasi la uccide, come quasi aveva ucciso il suo Helm la guerra: Non è uscita dal sogno, non può farlo, perché il sogno di oggi è la realtà di ieri e, con gli anni, le due cose abbandonano l’inganno di essere distinte, per presentarsi coalizzate contro un avversario più debole. È tornata a essere una donna che deve lottare. Come sempre. Adesso, mentre sopravvive per la sollecitudine di figli e nipoti che la soccorrono, Ada guarda in faccia la morte come sempre aveva guardato la vita, con l’amore ostinato per cui per ora non può permettersi di morire. Ci sono troppe cose a cui pensare. E poi, quando verrà davvero la morte? Solo allora una voce dice: ecco, adesso ti puoi voltare; non ci sarà più altro; ormai tutto è alle spalle. Chi non ha letto i precedenti ottimi libri di D’Alessandro sarà indotto da questo a cercarli.

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