Diceva un noto missionario, che per risolvere il problema della fame nel mondo basterebbe spedire i politici in una qualsiasi regione affamata dell’Africa – in Sud Sudan o in Uganda – per una settimana appena. Tornati a casa, in pochi giorni quei leader risolverebbero definitivamente il problema, trovando i fondi necessari tra le uscite militari e quelle del lusso, con una breve ma efficace spending review, tagliando qua e là nelle spese inutili o accessorie.
Ripenso a questo pensiero di un religioso comboniano messosi al servizio dei poveri, osservando il tragico istupidimento che ci colpisce tutti, o quasi: le guerre reali vengono percepite da chi non è direttamente coinvolto come un gioco alla guerra, un war game. Analogamente a quanto diceva il missionario, basterebbe far conversare un utente di tali feroci videogiochi con una qualsiasi madre di una qualsiasi vittima ucraina nel Donbass, un soldatino di leva ad esempio. Proporrei questo test semplicemente perché io stesso l’ho passato involontariamente nel corso di un mio viaggio di qualche mese fa in Ucraina. Ero giunto a Kyiv con una certa insofferenza per certi iper-nazionalismi di una popolazione che, secondo me, non accettava nessun compromesso con Mosca, per partito preso. Dopo aver a lungo ascoltato una donna quarantacinquenne che aveva perso il figlio ventenne nel Donetsk, ho dovuto cambiare opinione; se non altro, ho dovuto tenere conto delle vittime della guerra d’Ucraina e delle loro sofferenze.
Ascoltando le dichiarazioni disinvolte dei grandi di questo mondo, la loro mutabilità, il loro opportunismo, talvolta il loro cinismo, si ha l’impressione che la guerra vera sia una cosa, e che la loro di guerra sia un videogioco, se vogliamo un risiko a dimensioni reali, un missile qua un carro armato là, una divisione qua un’armata là… Dichiarazioni che paiono raccontare una fiction, mentre la cruda realtà è ben altra. Sul campo si muore, e parecchio, a dispetto delle “armi intelligenti”, che nei fatti lo sono solo per l’attaccante, mentre gli ordigni sono sempre più letali per gli attaccati. È per questo che basterebbe una notte in trincea per Putin e Trump per capire che la guerra è sempre e comunque una grande connerie, come diceva Prévert, un’immensa sciocchezza, una stupidità immane, e che la carne da cannone è carne viva, non polvere pirica o spolette di ordigni.
Sul campo, l’avanzata dei russi nel Donbass è lenta ma costante: gli attacchi missilistici e con droni contro Kyiv e le principali città ucraine sono un avvertimento dei russi sulla ineluttabilità della loro vittoria. Le altalene trumpiane sull’invio di un’adeguata contraerea a Zelensky per contrastare lo strapotere aereo russo sull’Ucraina non hanno fatto che convincere Putin a spingere sull’acceleratore, sperando nel colpo del ko. Ma Kyiv non molla, anche se le sue capacità di resistenza non sono certo infinite. Periodicamente, tuttavia, circolano notizie sulla vulnerabilità dell’economia russa, sulla crisi delle filiere dell’alta tecnologia; ma nei fatti l’immenso territorio russo permette approvvigionamenti assai diversificati, anche nel campo dell’alta tecnologia, soprattutto grazie alla Cina e all’India. Anche l’Iran, fornitore primo dei droni per Mosca, pare non aver cessato i suoi rifornimenti, nonostante la guerra dei dodici giorni.
Zelensky ha fatto visita a papa Leone XIV a Castelgandolfo, ottenendo parole lusinghiere per il popolo ucraino. Ma il pontefice ha soprattutto evocato l’idea di creare un ponte proprio in Vaticano, rilanciando l’idea di trattative ospitate dalla Santa Sede. Con il suo stile dimesso, pur non avendo le espressioni mediaticamente efficaci del suo predecessore, Leone XIV continua a tessere la tela della pace «disarmata e disarmante».