Tutto da guadagnare

C’è una dimensione della politica che va oltre l’esercizio del potere. Così potrebbe essere interpretata la vicenda che ha portato l’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter a meritare il premio Nobel per la pace 2002. Paradossalmente, la statura politica di Carter ha cominciato a crescere, si può dire, il giorno dopo la fine del suo mandato presidenziale. Erano gli anni della “Rivoluzione” khomeinista in Iran e del sequestro degli impiegati dell’Ambasciata americana a Teheran, durato un anno circa. Un’America umiliata e smarrita che tentò, con un risultato disastroso e tragico, un’improbabile “liberazione” degli ostaggi con una spettacolare operazione militare. La presidenza di Carter non è certo ricordata in America con benevolenza. E in effetti si tratta di una vicenda politica al chiaroscuro, su cui il giudizio della storia non è ancora maturato. Anche se non bisogna dimenticare che durante la sua presidenza Carter favorì gli accordi di Camp David tra palestinesi e israeliani, la firma del Trattato di pace fra Egitto ed Israele, la conclusione del Trattato Salt II sulle armi nucleari con l’Unione sovietica, il rilancio delle relazioni diplomatiche con la Cina, fu soprattutto da quello che tutti i commentatori considerarono come il suo fallimento politico che Carter seppe trarre l’energia e l’entusiasmo per un nuovo impegno. Carter, varcando in uscita i cancelli della Casa Bianca, non accettò di fare il “cincinnato”, ritornando ad occuparsi solo della sua piantagione di noccioline. In collaborazione con ambienti universitari, diede vita al “Carter center”, un’organizzazione non governativa che ha realizzato decine di prodotti a favore della pace ai quattro angoli del globo. Lo stesso Carter, con la moglie Rosalynn, non si è risparmiato, andando ben al di là dei consueti incarichi umanitari svolti dai presidenti degli Stati Uniti alla fine del loro incarico per “espiare” politiche discutibili. Le immagini di Carter in Sudafrica, in Colombia o più recentemente a Cuba come protagonista di “missioni impossibili” sintetizzano da sole l’ampiezza e la continuità del suo impegno. L’assegnazione del premio a Carter, passato in sordina nei mezzi di informazione americani, ha anche innescato una polemica politica per il suo significato “anti-Bush”. Per la verità, le dichiarazioni della giuria, che vanno proprio in tal senso, non sembrano in linea con la compassata prassi del premio. D’altra parte, questi non sono tempi compassati: i venti di guerra tornano a soffiare, il terrorismo internazionale è ancora una minaccia per la pace, e corre il rischio di esserlo anche la discutibile dottrina dell'”attacco preventivo” all’Iraq forgiata dall’amministrazione Bush. Una dottrina che, detto per inciso, ha provocato una netta presa di posizione contraria della Conferenza episcopale degli Stati Uniti. Ma questa è un’altra storia. Chi intanto è passato alla storia è Jimmy Carter, che tempo fa aveva scritto un libro intitolato: Tutto da guadagnare: vivere il resto della vita nel modo migliore. Il modo proposto da Carter? Quello di essere un testimone della pace e un sostenitore del dialogo anziché del conflitto, né preventivo, né successivo.

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