Tre ragazzi e una “pedalina”

La mattina del 27 aprile, in Piazza San Pietro mi sono sentita particolarmente vicina alla Famiglia Paolina in festa. Ed anche grata, per un episodio della mia infanzia di cui mantengo vivissimo il ricordo. Vivevo a Scano di Montiferro, un grosso centro agricolo in provincia di Oristano, dove mio padre comandava la stazione dei carabinieri. Periodicamente bussavano alla nostra porta due suore molto giovani, che portavano due borsoni carichi di libri. Il loro sguardo luminoso trasmetteva gioia di vivere. Arrivavano in corriera la mattina e ripartivano a pomeriggio inoltrato. Mio padre mi invitava a scegliere. E fu così che, a otto anni, conobbi i Fioretti di san Francesco. Non era usuale allora vedere delle religiose sui mezzi pubblici, che suonavano a tutti campanelli, persino in caserma. Un giorno, vinta la mia timidezza, chiesi se fossero “vere suore”. “Altroché – mi rispose con una risata una di loro -, siamo Figlie di San Paolo, ed il nostro fondatore è ancora vivo “. Mi stupì allora quella risposta, poiché pensavo che i santi fossero gente d’altri tempi. Ora non mi sorprende certo che sullo sfondo dell’immagine ufficiale di don Alberione sia raffigurata un’antenna satellitare: nulla di più indicato per questo nuovo beato, fondatore di molti istituti religiosi e, contemporaneamente, di un impero editoriale. Indubbiamente uno degli uomini più strettamente legati al nostro tempo. Ciò che mi sorprende invece è che di lui si sappia molto poco, e che fosse in definitiva sconosciuto ai suoi contemporanei. Sebbene un papa, Paolo VI, si fosse recato al suo capezzale giusto in tempo per dargli l’estremo saluto, il 26 novembre 1971. Quest’uomo, che si servì con audacia di ogni mezzo di comunicazione, non amava tuttavia stare sotto i riflettori. Anzi, coloro che l’hanno conosciuto sono concordi nel descriverlo come una persona schiva, parca di parole. “Mi vidi venire incontro un pretino basso, un po’ curvo, che si mise a sedere con semplicità su una seggiola del parlatorio. Un vecchio parroco in pensione sembrava, non fondatore di ben dieci istituti religiosi, maschili e femminili. Ma quando cominciò a parlare, con quel suo linguaggio essenziale, preciso, scaturì fuori tutta la sua figura spirituale; mi sembrò impossibile che una tale anima potesse stare imprigionata dentro quel corpo esile, quasi evanescente “. Così lo raffigura Spartaco Lucarini in una testimonianza rara, comparsa sul n. 24/1971 di Città nuova. Il profilo tracciato da don Giuseppe Zilli, allora direttore di Famiglia Cristiana, mette in luce, al di là delle fragili apparenze, di che tempra fosse quest’uomo sempre in anticipo con i suoi tempi. “La sua intuizione – scrive tra l’altro – non sta tanto nell’aver utilizzato i mezzi “più celeri ed efficaci” della comunicazione sociale come strumenti di apostolato – cosa che già altri prima di lui avevano cercato di fare, quanto nell’aver adottato integralmente il metodo industriale, che si tira dietro, per sua natura, l’obbligo di aggiornamento continuo e la complementarietà di molti settori. È l’industria al servizio della chiesa; è la rinuncia definitiva ad un certo tipo di artigianato; è soprattutto la rinuncia all’arrangiamento. Un perfetto apostolo deve essere anche un perfetto professionista”. Questo concetto comportava una struttura flessibile ed allo stesso tempo concatenata; per questo egli concepì ben dieci rami di un’unica famiglia religiosa, inserendo a pieno titolo, sorprendente novità per quei tempi, i laici – e dunque anche le donne – come componenti essenziali della Società San Paolo, e non come elementi secondari per servizi minori. Eppure nel 1914, data ufficiale della nascita della sua opera, si intravedevano appena le grandi potenzialità insite nei media che via via avrebbero caratterizzato così fortemente il secolo XX. Il 14 luglio di quell’anno, un prete non ancora trentenne andò a vivere con tre ragazzi in un piccolo stabile in piazza Cherasca, ad Alba, dividendo il poco spazio tra le macchine tipografiche ed il mobilio indispensabile per un’abitazione. Metteva così radici il grande albero della sua opera. E mentre i ragazzi presi dai campi si cimentavano davanti ad una vecchia macchina, la”pedalina”, egli manovrando con destrezza il mestolo della polenta impartiva loro i primi rudimenti del sapere, che andavano dalla grammatica, alla geografia, alla filosofia. Strumenti indispensabili per formare i “futuri Paolini” . La sua fu una scelta coraggiosa, anticipatrice di mezzo secolo delle grandi linee direttrici del Vaticano II. Scrive a questo proposito lo storico Alberto Monticone: “Fino alla Grande Guerra, giornali e pubblicazioni cattolici furono guardati con diffidenza, nel clima antimodernista, da taluni settori della Chiesa italiana”. “Fare a tutti la carità della verità”, ripeteva spesso ai suoi, mosso dall’urgenza di evangelizzare il maggior numero possibile di persone, con i mezzi più efficaci, nei luoghi deputati alla predicazione cristiana; ma anche – e soprattutto – negli aeropaghi a rischio, dove per farsi ascoltare bisogna inventare modi e linguaggi affatto nuovi. Tutto questo, e molto di più, egli ha lasciato ai suoi come eredità spirituale; ed ora, con la cerimonia solenne della beatificazione, il suo esempio è additato a quanti si impegnano cristianamente nei media. Un’impresa difficile, certo, ma esaltante. DON ALBERIONE UN FRATELLO A cura di Franca Zambonini e Carlo Citien, le edizioni San Paolo hanno pubblicato un agile volume dal titolo: Don Alberione. Dicono di lui. Oltre ad una breve biografia, il libro contiene varie testimonianze ed alcune interviste a persone che l’hanno conosciuto direttamente o mediante i suoi scritti. Tra gli intervistati, il card. Ersilio Tonini, il teologo Gianfranco Ravasi, Ettore Bernabei, il sen. Oscar Luigi Scalfaro, mons. Giuseppe Betori e Chiara Lubich, della cui intervista riportiamo alcuni stralci. “Pochi anni dopo la sua “partenza”, nel 1974 – dice la fondatrice e presidente dei Focolari, che non ha mai incontrato don Alberione di persona – mi è capitato di far meditazione su una raccolta di suoi Pensieri. E ho riscoperto, ancora una volta, quanto le opere di Dio, pur diversissime, abbiano lineamenti simili. È perché sono figlie di un unico Padre”. “La somiglianza – risponde poi all’intervistatrice – balza evidente in vari passi dei suoi scritti :”La Famiglia paolina – scrive don Alberione – è suscitata da san Paolo per continuare la sua opera. Non abbiamo eletto noi san Paolo, è lui che ha eletto e chiamato noi”. Così è per noi: è forte la certezza che Maria ci ha chiamati e vuole che questa sua opera sia in un certo modo una sua continuazione di oggi”. Le prove affrontate da ambedue le opere agli inizi, poi, “me lo hanno fatto sentire particolarmente “fratello”, se per me si intende lo strumento di Dio ed il nulla che sono (“).Anche per noi non sono mancate accuse e dolorose sospensioni. Sono i sintomi di un’opera di Dio, è la logica del vangelo. “Il chicco di grano se non marcisce e muore non può portare frutto””. L’ATTUALITÀ DI UN SOGNO Nostra intervista con don Vincenzo Santarcangelo, direttore delle Edizioni San Paolo. A novant’anni dalla nascita della Famiglia Paolina, qual è la situazione attuale della sua missione? “Rispetto agli inizi è ancora più impegnativa. Inutile nasconderlo. Le nuove tecnologie e un mondo sempre più “globalizzato” (lo dico in senso negativo) impegnano gli operatori di “comunicazione” a 360 gradi: primo fra tutti la testimonianza personale, poi l’indispensabile professionalità nell’utilizzo degli strumenti adottati per comunicare. Questa duplice dimensione è vincolante per quanti, come il nostro fondatore amava dire, vogliono impegnarsi nel “fare la carità della verità”. Informare, non inteso solo in senso cristiano, è anche formare delle coscienze libere e capaci di sviluppare nuovi percorsi utili all’umanità intera”. Sembra ci sia una contraddizione tra la dimensione negativa che lei dà della globalizzazione e l’accenno che fa alla “umanità intera”. “Buona domanda. Il problema, secondo me, nasce da un equivoco di fondo: la globalizzazione tende a uniformare atteggiamenti e comportamenti, quasi degli standard che permettono agli operatori commerciali di individuare usi e costumi delle persone e farvi fronte con prodotti ad hoc. L’ambito cristiano della comunicazione va controcorrente (e il nostro papa ce lo insegna): ci si rivolge a delle persone inserite nel proprio contesto sociale e culturale e, quindi, si tenta di promuovere una coscienza critica che sappia far fronte a ogni tipo di manipolazione. In questo senso, il McLuhan del “villaggio globale” non ha colto il segno. Sono nato in un “villaggio” e so che le relazioni tra le persone che vivono in esso non sono semplicemente virtuali: non basta “sapere”, occorre conoscere e partecipare attivamente. La comunicazione cristiana prevede questo coinvolgimento pieno di colui che comunica e del destinatario della comunicazione”. Quali le sfide che oggi si trovano di fronte alla Famiglia Paolina? “Sono tante. Qui rischio di ripetermi. La prima sfida è la testimonianza personale. Senza di essa non c’è spazio per un’azione efficace che nasca da una fede vissuta e condivisa. È evidente che bisogna tener conto anche dell’aspetto tecnico: quali mezzi uso, come li uso e a quali scopi. Ma alla base c’è la persona impegnata nel processo comunicativo. Se non credi in quello che comunichi sei un ciarlatano. Mi rendo conto che sono parole forti, ma non credo ci si possa appellare a operazioni di marketing per avallare scelte di comodo. La Famiglia Paolina, poi, è una realtà complessa. Opera in diversi settori e tenta di venire incontro a tutto il vivere quotidiano della persona. Chi ci conosce sa che facciamo di tutto per eseguire il mandato del fondatore: “Tutto il Cristo all’uomo e tutto l’uomo a Cristo”. In quel “tutto” è racchiuso un piccolo segreto che noi paolini, sempre su mandato del nostro fondatore, chiamiamo “segreto di riuscita”. È riuscita a mantenere lo spirito del fondatore? “Speriamo di sì! Anche qui tradizione e innovazione devono camminare di pari passo. Don Alberione ebbe una vera e propria “illuminazione”. Faccio un’affermazione azzardata, dettata anche dall’affetto che porto per il nostro fondatore: credo sia uno degli uomini più “incisivi” del Novecento. Ha saputo cogliere le istanze degli uomini del suo tempo e ha fatto sì che i “suoi” le condividessero. Probabilmente Paolo VI è il papa che ha colto di più questa ventata di rinnovamento quando lo descrive come “umile, silenzioso, attento ai segni dei tempi”. È una bella e pesante eredità: essere attento ai segni dei tempi restando umile e silenzioso”. Quale in particolare il futuro dell’editoria della Famiglia paolina? Verso dove sta navigando? “È una domanda difficile. Siamo una “famiglia religiosa” molto poliedrica. Si opera in diversi settori e si cerca di tener fede, tutti, al mandato del fondatore. Don Alberione, fin dall’inizio delle sue fondazioni, comprese che per quest’opera ci volevano persone consacrate. Il primo nostro impegno è proprio questo: dedicati all’apostolato delle comunicazioni sociali senza mettere tra parentesi (tentazione sempre presente) l’impegno di consacrati. Cosa significa? Innanzitutto una vita permeata dalla preghiera e dalla tensione apostolica; agganciata a questa la conoscenza del messaggio che si vuole trasmettere e dei mezzi da utilizzare, nonché dei destinatari a cui si vuole indirizzarlo; infine, ritenersi incapaci e insufficienti in tutto perché chi opera – come dice san Paolo – è lo Spirito”.

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