Tra crisi e fascino

Possibile? Eppure, gli stranieri, dai tedeschi ai giapponesi, dagli inglesi agli statunitensi, si vanno chiedendo se noi italiani siamo più furbi di tutti loro. Da non credere. Ma la faccenda è seria. Sembrerebbe uno scherzo di cattivo gusto, proprio quando, con la crisi della Fiat, si fa spazio la convinzione di vivere in un paese in declino, senza più una chiara vocazione. E una domanda sovrasta le analisi della crisi e le ricette di ripresa: siamo ancora un paese industrializzato? Non abbiamo più l’industria pesante e la siderurgia. Con la chimica stiamo perdendo terreno, mentre un tempo Montedison era un colosso in Europa, e nell’elettronica siamo fuori, quando non molto tempo fa l’Olivetti era una punta avanzata. Abbiamo dovuto segnare il passo di fronte alle multinazionali pure nei settori alimentare e della grande distribuzione. Sembra quasi che ci volesse la crisi Fiat per far suonare il campanello d’allarme. Così adesso nessuno sottovaluta il rischio di diventare solo un mercato, d’essere meno padroni in casa propria. E soprattutto non è di poco conto colpo all’immagine e al ruolo dell’Italia se dovesse perdere la più grande industria privata. D’altro canto, mai come adesso la Ferrari, con la sua debordante supre- colpo all’immagine e al ruolo dell’Italia se dovesse perdere la più grande industria privata. D’altro canto, mai come adesso la Ferrari, con la sua debordante Abbiamo molte piccole e medie imprese assai dinamiche, qualcuna persino quotata a Wall Street. Ma non è che con questa pattuglia che si affronta il mare alto della globalizzazione”. La congiuntura economica negativa, del resto, non attanaglia solo l’Italia. E questo mal comune internazionale – avvertono gli esperti – non è affatto un mezzo gaudio, come vorrebbe consolare un vecchio proverbio. I sociologi ricordano infatti che gli italiani danno il meglio solo nelle situazioni difficili, e una crisi generalizzata come l’attuale non fa scattare nella penisola la dovuta reattività, quella voglia di far vedere che siamo in grado di prendere il treno, anche se all’ultimo momento. “L’Italia è un po’ come la Fiat: siamo in un ciclo particolare, dove finiscono alcuni modelli e non ne arrivano ancora di nuovi”, taglia corto Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, il più ascoltato indagatore della società italiana. Nonostante la crisi, “il quadro è quello di un paese ricco che oggi ha la possibilità di stare un po’ fermo”. La Rossa di Maranello più che mai ambasciatrice del made in Italy. Insieme ai vini, alla moda, al design, alla creatività di migliaia di aziende, il nostro paese sta raccogliendo un nuovo successo all’estero. Ma bisogna investire in ricerca e innovazione. Ma dopo? “Penso che tra cinque anni avremo una media impresa forte. Un tempo, lo sviluppo italiano lo facevano Fiat, Pirelli, Finmeccanica, Eni, insieme alle piccole imprese. Ma dal vuoto che si sta creando potrebbe emergere un migliaio di medie imprese forti. Ci vorrà del tempo, ma arriveranno e rimpiazzeranno quel vuoto. Le medie imprese ci sono e figurano come le più internazionalizzate”. Conferme giungono dal quadro delle esportazioni. Pur in presenza di un regresso del commercio mondiale, nel 2001 il numero delle aziende italiane esportatrici è cresciuto di 3 mila unità rispetto all’anno precedente, superando quota 181 mila, e la penetrazione dei prodotti nostrani ha raggiunto nuovi paesi. Un andamento decisamente in controtendenza rispetto ad un ciclo declinante che aveva dominato la seconda metà degli anni Novanta. In crescita (oltre 1.200) anche le imprese italiane che investono all’estero. Guai, però, a cullarsi su questi andamenti. Gli esperti evidenziano che l’Italia spende poco, anzi pochissimo, in ricerca e sviluppo e tiene in scarsa considerazione l’innovazione. Le aziende sono quotate in Borsa, ma non si preoccupano della ricerca, e anche gli investimenti pubblici restano inadeguati. Tanto che si comincia a riconsiderare, pure tra i liberisti più convinti, la tanto biasimata economia mista, in cui l’intervento pubblico assicurava infrastrutture e innovazione. In Europa siamo il fanalino di coda in fatto di investimenti pubblici per la ricerca, insieme a Spagna e Portogallo. Mentre però i due paesi iberici negli ultimi anni hanno accresciuto la loro quota di sforzi, da noi le risorse sono costantemente calate. Da qui, la costante “fuga dei cervelli”. I fondi per il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) sono stati ridotti negli ultimi anni. Il presidente della Camera, Casini, ha parlato di “inaccettabile quantità di risorse”, stigmatizzando che “un paese che non investe nella ricerca è un paese che non investe sul futuro”. Meno male che sono molto più accorte le aziende private, dove nei settori più innovativi, dalle telecomunicazioni alla chimica, alla farmaceutica, gli investimenti in ricerca vanno crescendo: dal 4,3 per cento del 2000 all’8,7 dello scorso anno (dati Istat). E proprio le storie italiane di successo stanno lì a dimostrare che è il caso di scommettere in ricerca e sviluppo. La STMicroelectronics (esempio eclatante) è un gruppo divenuto il secondo produttore mondiale di microprocessori dopo la statunitense Intel e davanti a un colosso come la giapponese Toshiba. Nel ’95 era al 14° posto. Dà occupazione a 42 mila addetti (oltre 9 mila in Italia), di cui 30 mila assunti negli ultimi cinque anni: 17 gli impianti nel mondo, 12 centri di ricerca avanzata, 32 sedi di design. Investe per i suoi laboratori il 15-16 per cento del fatturato, cosicché nel solo 2001 ha registrato 636 brevetti. L’amministratore delegato Pasquale Pistorio segue con particolare attenzione la sede di ricerca a Catania, con i suoi duemila ingegneri che operano in stretto contatto con l’università e il Cnr. L’indicazione è chiara. Si tratta di seguirla. E se al presente tra le famiglie serpeggia la preoccupazione per l’inflazione e per l’incerto futuro (i più pessimisti sono i 40-60enni e i possessori di titoli di studio più elevati), l’esercito delle piccole e medie imprese – in larga misura il nerbo dell’economia nazionale -diffonde segnali di ottimismo. Al recente Forum organizzato a Prato, gli imprenditori del settore – che sono più sul “fronte” dei cittadini comuni – hanno infatti espresso previsioni incoraggianti sul futuro economico nazionale.

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