Toni Ward vestire la luce

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Roma, febbraio. Sfilano dodici modelle sulla passerella nella sala B dell’Auditorium. Un passaggio di finezza coloristica, eleganza lineare, vitalità tra gli applausi del pubblico. È un aspetto del mondo visivo di Tony Ward, 34 anni, alla sua terza volta nella capitale. Un anno fa – racconta, il giorno dopo, stanco ma felice – inventai una sfilata sul tema dell’Eden, dopo sei mesi una seconda sui Viaggi di Ulisse. Ora ho voluto indagare sulla mia personalità di libanese, che ha vissuto per oltre sette anni a Parigi, è sposato dal ’95 con un’italiana che per me ha lasciato tutto. Mi sono ricordato dell’Orient Express, il treno che viaggiava dall’Oriente all’Occidente ed era punto d’incontro fra civiltà differenti: mi piaceva, perché mi rappresenta in qualche modo, e ci siamo messi al lavoro, pur con la paura di cadere nel vecchio stile anni Trenta; e poi con le preoccupazioni economiche che, nel nostro lavoro, non mancano. Infatti, all’inizio non avevamo i 50 mila dollari necessari per allestire la sfilata, e ne parlavo con mia moglie Anna, che è anche la mia miglior consigliera. Due giorni dopo, una cliente ha acquistato stoffe e vestiti, pagando in contanti 48mila dollari: ci è sembrato un segnale e siamo partiti al lavoro. Non da solo, ovviamente. Tony lavora nell’atelier di famiglia a Beirut, con il padre – la pietra fondante, lo definisce – e undici collaboratori fissi; c’è poi un secondo atelier di dieci persone per i ricami, ed un altro in Italia. È indispensabile un rapporto di fiducia con i miei collaboratori – ammette – perché i vestiti non li faccio io materialmente: io li disegno, per le sfilate taglio le stoffe, ma poi sono loro che lavorano anche 200 o 300 ore su di un capo, con pazienza ma anche tanto amore, altrimenti non esce una cosa bella. La tensione non manca, succede che si può rovinare un abito, bruciare una stoffa… Ma io devo rendermi conto che i miei collaboratori sono persone che hanno famiglia, problemi, che so, pagare la scuola per i figli, e così via, quindi mantenere un clima di fiducia. Vita non facile, la sua. L’ambiente della moda ha due aspetti – dice, passandosi una mano sui capelli -. Lo si può prendere come un semplice mestiere e quindi non mischiarsi troppo, anche perché non mancano i colpi bassi; oppure, farti prendere dal gioco, puntare a camminare sulla pelle degli altri, crederti il miglior stilista del mondo, che so, un Valentino o un Armani che certo, dopo tanti anni, devono credere per forza al loro talento. Io invece mi sento ancora in crescita. Ora, dopo due mesi di lavoro, tornato qui a Ro- ma, mi sentivo deluso: la collezione non mi sembrava bella, non riuscivo a guardarla, la avvertivo distante, anche se tutti mi dicevano il contrario, per farmi piacere, pensavo. Poi, l’esito del pubblico e dei media è stato positivo, sono nate occasioni di lavoro, andrò ad un’altra sfilata a Palm Beach; ma io resto contento della mia insicurezza, è forse l’unico lato artistico che ho, il non sapere se posso dare il meglio di me. Spero sempre di non montarmi la testa. Ieri, prima della sfilata, dovendo secondo la regia salire sul podio, l’unico momento bello è stato quello di fermarmi un attimo a pregare Dio dicendogli: Tutto questo è per te, lasciami partorire e concludere!. Come si diceva, la sfilata è stata molto apprezzata, un trionfo del colore e della luce. Ci sono molti colori di pastello – racconta Tony – ma anche toni forti. Ho lavorato parecchio sul rosso, sull’oro, colori che sentivo particolarmente adatti al viaggio fra paesi diversi – Baghdad, Istanbul, Venezia, Parigi… – che la collezione rappresentava. Il colore è stato il punto di raccordo dei diversi tableaux, in modo da realizzare un tipo di armonia che, per me, si trova nei cromatismi, nella li- nea. La moda per le sfilate di per sé deve esaltare il corpo umano, far sognare la bellezza. Quest’anno ho usato, a differenza del passato, un gioco di trasparenze molto delicato, con abiti anche vestibili, che rendono giustizia alla bellezza di una donna. Naturalmente, la preparazione è stata stressante, con tanti cambiamenti: un capo da solo ha preso tre settimane di lavoro e poi non l’ho fatto sfilare, perché lo sentivo stonato, diverse stoffe molto care le abbiamo avvertite disarmoniche rispetto a quello che volevamo. Poi, c’era stata la scelta delle modelle, sempre insieme a mia moglie. Le si guarda una ad una, una scelta difficile. Per farne sfilare dodici, ne abbiamo viste quasi 180. A volte sembra un mercato di pelle perché si osservano i dettagli del corpo più o meno adatto. Dire di no ad una di queste modelle – spesso, al contrario di ciò che si può pensare, sono persone pudiche che non si spogliano facilmente – mi costa, perché non riesco ad abituarmi all’idea di scartare una persona. Ma anche questo fa parte del mio lavoro. Come altri aspetti, fra cui il rapporto con la clientela. Noi lavoriamo soprattutto con i paesi arabi, con il mondo delle donne di alto livello, per cui è necessario usare parecchio la pubblicità con una grande sfilata per lanciare il nostro stile; diversamente, il lavoro non arriva. Io poi devo viaggiare molto, per incontrare ad esempio delle principesse che ti fanno aspettare un giorno, magari poi telefonano alle cinque del mattino o alle due di notte per un appuntamento. È un entrare nell’ambiente della superficialità, incontrare persone a volte interessanti, ma spesso prigioniere della ricchezza. Ora, dopo il successo della sfilata, sono molto pressato ad allargare l’azienda, il che vorrebbe dire stare ancora più lontano da casa, cosa che mi costa molto. Il mio sogno tuttavia sarebbe di arrivare dall’alta moda al prêt-àporter, a creazioni che possono essere vendute alla gente comune, ma il cammino è ancora in salita…. Ma, a proposito, come è iniziato il viaggio di Tony nella moda? Lui lo racconta così: Nel 1988 scoppiò la guerra a Beirut. L’università dove studiavo medicina – alla moda non ci pensavo affatto – restò chiusa, e così mio padre mi chiese di aiutarlo nell’atelier di famiglia; senza rendermene conto, mi sono appassionato, ho imparato a cucire e a disegnare. Per evitare la guerra, sono andato a Parigi, dove avevo degli amici, cristiani come me, che mi hanno aiutato. Frequentavo una scuola serale per imparare il disegno, e per mantenermi facevo di tutto: imbianchino, guardia del corpo, receptionist notturno in un hotel. Tony si perfeziona alla maison Lanvin, poi con Gianfranco Ferrè da Christian Dior… Anni duri, dove ho imparato umanamente a parare i colpi che mi arrivavano, e dove sono stato sul punto di abbandonare Parigi; ma anche positivi perché il nostro è un mestiere che non puoi imparare da solo. Sei mesi fa, ho rivisto dopo 14 anni un mio responsabile alla Lanvin che era stato durissimo con me; ma io l’ho ringraziato, perché grazie al suo rigore ora sono cresciuto. Viaggi, lavoro. E la famiglia, una realtà che ama – sogno un giorno intero insieme ai figli, dice – e che non è di tutti gli stilisti, spesso single. Con mia moglie Anna, viaggiamo sempre insieme. Lei è la mia salvezza, senza lei mi sarei perso nella corrente. Ora aspettiamo il quarto figlio: gli daremo il nome di un angelo, anche se un mio bambino lo vorrebbe chiamare Mohammed come uno dei suoi compagni di scuola: perché i figli li mando alla scuola laica, dove sono tutti libanesi, musulmani e cristiani insieme. Tony è cristiano ortodosso. Quanto c’entra la fede nel suo lavoro? Io non mi considero un artista, ma un sarto che sente la stoffa, perché l’unico artista è Dio; io faccio cose che possono piacere alla gente. E se mi riesce qualcosa di bello, lo offro a Dio perché penso che lui può lavorare attraverso di me.

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