Todorov e le frontiere

Lo studioso bulgaro se n’è andato a 77 anni. Lascia il suo amore per un illuminismo non intransigente, capace di trovare il senso dell’altro  
EPA/CHEMA MOYA

I grandi vecchi (del’Est) se ne vanno. Ad appena qualche settimana dalla morte di Bauman (polacco) e a qualche giorno da quella di Matejevic (bosniaco), ecco che se ne va anche Tzvetan Todorov, un uomo della frontiera, un bulgaro scappato in Francia nel 1963 perché perseguitato dal regime comunista, rimasto profugo per tutta la sua vita di studio della letteratura, russa in particolare, ma diventato col tempo un intellettuale che amava parlare di tutto, del mondo che cambia.

Una vita da passatore (2010) è il titolo di un suo libro, un titolo che sintetizza bene il suo pensiero: un uomo che s’è interrogato sul limite, sia personale che comunitario, sia individuale che sociale, cercando sempre di non cedere alle derive ideologiche illuministe, di cui tuttavia era un fervido sostenitore. Nel libro La conquista dell’America. Il problema dell’altro (1984), come ricorda su Repubblica Giancarlo Bosetti, argomenta il suo rifiuto dell’«universalismo» illuminista che cede alla mentalità colonialista della cultura europea che crede di essere “la” cultura.

Seguendo questa luce Todorov si è schierato coraggiosamente contro gli interventi francesi in Libia e Mali, ha stigmatizzato i teorizzatori del conflitto di civiltà (La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, 2009), si è dichiarato favorevole all’immigrazione verso l’Europa perché «i migranti rappresentano una risorsa formidabile per la vecchia Europa». E aveva dichiarato recentemente ad Avvenire: «L’accoglienza dello straniero ha sempre costituito un caposaldo della tradizione europea».

C’è pure un lato poco sottolineato nella lunga ricerca di Todorov, come nota Luigino Bruni in un post su FB: «La sua riflessione sulla relazione e l’altro è una eredità enorme. La vita comune (1998) è tra i libri più generativi che ho letto». Nel suo Memoria del male, tentazione del bene (2001) Todorov ha guardato alla crescita di una “pluralità non dogmatica”, in cui la “vita in comune” diventava appunto il riferimento capace di dar senso alla nostra esistenza sulle frontiere.

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