Tertulliano, eppure fu grande!

Chi visita le rovine di Cartagine non può fare a meno di evocare la figura di un suo illustre figlio che ha dato molto al cristianesimo: Tertulliano.

Oggi gli spazi del Colosseo e del Foro Romano ospitano fino al 29 marzo 2020 la prima mostra dedicata ad una delle città più potenti e affascinanti del mondo antico: Cartagine. La sua distruzione nel 146 a. C., fortemente voluta da Roma, fu tuttavia causa, per la colonia fenicia già regina del Mediterraneo, di una rinascita simile a quella della leggendaria Araba Fenice dalle sue stesse ceneri: risorta, infatti, una prima volta per volontà di Cesare, conobbe con Ottaviano una rifondazione col nome di Colonia Iulia Concordia Carthago, arrivando ad essere, nel periodo di massimo splendore, una metropoli di 300 mila abitanti: terza città dell’Impero dopo l’Urbe e Alessandria. Dopo di che anche la nuova Cartagine cadde nel 439, stavolta sotto la conquista di Genserico, re dei Vandali.

Tracce notevoli delle sue passate glorie si colgono visitando, a 16 chilometri da Tunisi, la collina di Byrsa (l’antica acropoli punica e romana) e, nei dintorni, il lussuoso quartiere residenziale, le terme di Antonino (le più grandi dopo quelle di Caracalla e Diocleziano a Roma) e la basilica cristiana di epoca bizantina.

Come luoghi di spettacolo, Cartagine sfoggiava un anfiteatro simile per dimensioni all’Arena di Verona e capace di contenere circa 40 mila spettatori (oggi ne rimangono soltanto modeste vestigia con al centro dell’arena una colonna commemorativa delle martiri Perpetua e Felicita, ivi gettate in pasto alle belve). Poi un circo ancora tutto da scavare, ma che dai rilievi aerei risulta essere enorme, in grado com’era di accogliere oltre 200 mila spettatori (sono stati portati alla luce i resti della “spina” attorno alla quale giravano i carri). E ancora: il teatro, uno dei più imponenti in terra d’Africa (frequentato da Agostino durante il suo soggiorno a Cartagine prima come studente e poi come insegnante di retorica) con l’adiacente odeon costruito per celebrare i Giochi Pitici.

Di questi grandiosi edifici, destinati a soddisfare la passione smodata degli abitanti della colonia per i ludi cruenti dei gladiatori, le gare equestri e le rappresentazioni teatrali e musicali, tratta un’opera latina il cui titolo è appunto De spectaculis, scritta per ammonire i cristiani del posto che si lasciavano irretire da tali giochi idolatri, crudeli e impudichi. L’autore Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, nativo di Cartagine (circa 150-160) e figlio di un centurione della coorte proconsolare, proveniva dal paganesimo. Anche lui, prima di convertirsi in età matura grazie all’esempio dei martiri, si dilettava di ciò che ora invece deplorava («Ho riso, assistendo gli svaghi atroci dei ludi meridiani»).

Uomo d’intelligenza acuta e raziocinativa, di grande cultura filosofica e giuridica (fu avvocato famoso a Roma), dopo aver abbracciato con entusiasmo la nuova religione dedicò l’intera vita a difenderla con coraggio, in tempi di persecuzione, dalle gravissime accuse che le rivolgevano i pagani, dimostrandone la superiorità. Focoso e impaziente di carattere, difetto che lui stesso ammetteva, fu intransigente con sé e con i cristiani restii ad affrontare il martirio e la cui vita era ancora inquinata di costumanze pagane: di qui, in campo morale, quel rigorismo spietato che lo portò a dichiarare, fra l’altro, illegittime le seconde nozze, fino ad aderire, intorno ai cinquant’anni, al movimento carismatico-profetico fondato in Frigia da un certo Montano. Morì a tarda età: secondo san Girolamo, nel 240. Prima però si era staccato anche dal montanismo per fondare una setta ancora più estremista, ai limiti del fanatismo, detta appunto dei tertullianisti. Pur in aperto contrasto con la Chiesa di Roma, Tertulliano continuò a considerare la Chiesa come “Madre” e, malgrado l’uscita dall’ortodossia, ad essere stimato nella Chiesa africana del III secolo e oltre, se lo stesso san Girolamo non cessava di consultarne gli scritti, riferendosi a lui come ad un “maestro”.

Primo degli scrittori latini cristiani in ordine di tempo (ma c’è chi dà la precedenza a Minucio Felice), l’Africano scrisse opere geniali, ricche di dottrina e di autentica fede, a giudicare dalle trentuno che ci sono pervenute, fra cui il più antico commento latino al Padre Nostro e quello che è ritenuto il suo capolavoro: il giovanile Apologetico. Stupenda l’affermazione che si legge nel trattato La risurrezione dei morti: «La carne risorgerà: tutta la carne, proprio la carne, e la carne tutta intera. Dovunque si trovi, essa è in deposito presso Dio, in virtù del fedelissimo mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo, che restituirà Dio all’uomo e l’uomo a Dio».

Il suo stile personalissimo, brillante e vigoroso, influenzò gli apologisti successivi, con particolare riferimento ai rapporti tra Stato e Chiesa. Ma il principale merito di Tertulliano sta nell’aver gettato le fondamenta della teologia trinitaria della Chiesa latina. Fu lui a coniare neologismi che avrebbero segnato tutta la teologia cristiana, come il termine trinitas in relazione alle Persone divine. La stessa definizione di Trinità come “una natura in tre persone” rappresenta un’acquisizione definitiva. La sua cristologia fu ripresa dai concili di Nicea e di Calcedonia e non poche tracce del suo pensiero sono presenti in vari documenti del Concilio Vaticano II e nel Catechismo della Chiesa Cattolica.

Sue celebri affermazioni sono: «Si diventa, non si nasce cristiani»; «Più ci mietete, più numerosi diventiamo: il sangue dei cristiani è semenza»; «La verità è una, l’errore si moltiplica»; «Non fa certo parte della religione imporre la religione»; «Dove due o tre (anche laici) sono uniti nel nome di Cristo, lì è la Chiesa»; e l’altra secondo cui la nostra anima «è naturalmente cristiana».

Chi, più di recente, ha rilevato l’importanza di Tertulliano scrittore ecclesiastico è stato Benedetto XVI, che nella catechesi del 30 maggio 2007 così si esprimeva: «A me fa molto pensare questa grande personalità morale e intellettuale, quest’uomo che ha dato un così grande contributo al pensiero cristiano. Si vede che alla fine gli manca la semplicità, l’umiltà di inserirsi nella Chiesa, di accettare le sue debolezze, di essere tollerante con gli altri e con sé stesso. Quando si vede solo il proprio pensiero nella sua grandezza, alla fine è proprio questa grandezza che si perde. La caratteristica essenziale di un grande teologo è l’umiltà di stare con la Chiesa, di accettare le sue e le proprie debolezze, perché solo Dio è realmente tutto santo. Noi invece abbiamo sempre bisogno del perdono».

 

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