Tempo per vivere, tempo per morire

Il morire del nostro fratello Fabo pone a tutti (Chiesa e società) di meditare sul mistero della morte

Ciascuno di noi custodisce nel suo cuore la morte dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei parenti, degli amici, che sono morti in mille modi e in mille luoghi, con tanto dolore, con tanta prova e sofferenza.

Addirittura al cuore della liturgia sta il grido di Paolo: «Annunciamo la tua morte o Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta».

Cosa significa annunciare la morte del Signore se non condividere con la nostra vita il dolore e la morte di chi amiamo, di coloro con cui abbiamo condiviso la vita e il dolore, fino a unire la nostra morte con la morte del Signore.

Sempre Paolo nella seconda lettera ai Corinti pone con grande nettezza la questione  della “sentenza di morte,” :«abbiamo ricevuto su di noi la sentenza di morte, per imparare a non riporre  fiducia in noi stessi, ma nel Dio che resuscita i morti».

Ecco molti hanno sperimentato questa sentenza di morte, che avviene spesso all’improvviso, spezzando desideri, attese, aprendo il tempo del dolore. E rendendo chiuso il cielo della nostra vita.

E la sentenza di morte ha il suo compimento nel grido di Gesù sulla croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù sperimenta l’abbandono di Dio. In Dio Gesù è abbandonato. Ecco il punto supremo della sofferenza del servo di Signore crocifisso. Ecco il luogo gelido della terra, che nessuno è in grado di abitare.

Il grido che Fabo ha rivolto a noi e che ci interpella alla radice della nostra vita, domanda e chiede il condividere, lo stare accanto, l’accompagnare cioè il vivere nella compagnia con chi soffre i giorni e le ore della prova più grande.

Allora la vicenda di Fabo rinvia al dolore del mondo, ai bambini uccisi in Medio Oriente e in Libia o nel centro Africa, e dunque nei luoghi del dolore del mondo. Tutti cercano dignità e pace, uno per uno, grandi e piccoli, ciascuno con il suo peso, spesso insuperabile e intollerabile.

Il dolore può spezzare e può schiacciare.

Penso a Barbara, una ragazza di Fucecchio, malata di Aids, che ormai venti anni fa, mi chiese di aiutarla a morire, gettandosi da una finestra.

Io le risposi narrando la resurrezione di Gesù, la parola di Dio, che ogni giorno mi dava la forza di stare in piedi, a me  che ho le gambe malferme. È stata l’unica volta che ho annunciato il Vangelo come parola potente. E Barbara si tranquillizzò e attese l’ora.

Penso a quando la sentenza di morte ha interpellato   mia moglie. Un anno e mezzo di agonia, di combattimento spirituale. Arrivata alla fine, il dolore era diventato devastante.

Avevamo delle pasticche da darle, ma ormai, non deglutendo più, questo non era possibile. Arrivò nostra figlia, che la  accolse nelle sue braccia, continuò la preghiera e  Piera si è consegnata nella pace. Il massimo del dolore si trasformò nel massimo della tenerezza.

Ogni morte, da quella più serena a quella più violenta, da quella più abbandonata a quella più custodita, da quella più dignitosa, a quella dimenticata da Dio e dagli uomini, abita nella morte di Gesù e ha lì la sua dignità e bellezza, senza graduatorie, senza imporre modelli, ma vivendo la sequela più radicale.

Dio benedice ogni persona che muore  senza escludere nessuno, non guarda alle dottrine, ma alle persone  nella durezza  della prova e della fine della vita.

Il servo del Signore è davvero l’uomo dei dolori, che ben conosce il patire. Anche Lui era accanto al letto di Fabo e della sua compagna e dei suoi cari a portare insieme fino alla fine il potere dell’amore e il potere del patire.

Questa è la preghiera dei discepoli del Signore alla fine della giornata e della giornata della vita: “Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola”. Il Signore, la parola e la pace hanno custodito la vita e la morte di Fabo e la vita e la morte di tanti in ogni parte del mondo.

Ecco la incarnazione fino alla morte, di cui parla Basilio, che accoglie tutti, senza fare l’esame di teologia a nessuno, senza pagare nessun biglietto per entrare in chiesa, senza dire di no a chi chiede semplicemente l’eucarestia, come dieci anni fa avvenne.

La morte diventa sorella, come dice Francesco d’Assisi. Non è una banalizzazione della morte o una sua risoluzione retorica. La morte è sorella perché vive nella compagnia della nostra vita e riconosce in essa il mistero della morte di Gesù, il mistero della pasqua da essa portata.

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