Il tempo, il Grande domatore delle illusioni

Il coreografo greco Dimitris Papaioannou esplora il nostro tempo arcaico e il nostro presente, in un susseguirsi di visioni a tratti oniriche, a tratti ironiche e dalla forte vocazione simbolica. Ricerca il buio e la luce dell’umana esistenza, passando attraverso le sue passioni. Al Festival Torinodanza  

La scena si apre su un grande tavolato sconnesso e ondulato, una specie di superficie lunare, uno spazio astratto da cui emergono e scompaiono i dieci interpreti. I rimandi pittorici, scultorei, e cinematografici, che via via si susseguono, sono espliciti: Rembrandt, Botticelli, El Greco, Murnau, Fritz Lang, Kubrick, e Yannis Kounellis in particolare, alla cui Arte Povera dichiaratamente si ispira. Basti l’immagine iniziale delle scarpe nere in proscenio ardue da strappare dalla terra. Appena l’uomo che le indossa riesce a staccarle riveleranno piante di radici fissate alle suole.

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Di continue rivelazioni è costruito lo spettacolo The Great Tamer: rinvenimenti e occultamenti che hanno radici sottoterra, alla ricerca degli strati nascosti dell’esistenza umana, di se stessi e del mondo. Il titolo The Great Tamer (Il grande domatore) è una metafora per definire il tempo, usata da Omero e i tragici greci, ma anche un riferimento al gioco del circo dove il domatore che educa gli animali selvaggi è dunque colui che educa se stesso. Ma qui il tempo è dilatato al nostro, a quello prossimo, e futuro.

Dimitris Papaioannou, classe 1964, artista multidisciplinare dalla creatività non catalogabile dato che è coreografo, regista, pittore, performer, fumettista, attinge indirettamente al mito di Persefone, la dea moglie di Ade costretta a trascorrere sei mesi nell’oltretomba e gli altri sei tra i viventi, con la condanna che durante il tempo impiegato nel regno dei morti, nel mondo sarebbe calato il freddo e la natura si sarebbe addormentata, mentre nei restanti mesi la terra sarebbe tornata fertile.

website1200x801du18thegreattamerbydimitrispapaioannou6photojulianmommertFertilità e aridità, dunque, luce e buio, sono gli altri temi che emergono in questo affresco senza parole, silenzioso e rarefatto nel procedere per tableaux vivants, che celebra quella civiltà classica la cui eredità è, per l’artista greco, ineludibile. Come un archeologo Papaioannou riporta in luce, dai grigi lastroni affastellati sulla vasta scena ondulata e rialzata su un monticello, dapprima pietre e terra, poi creature umane scomposte negli arti – per effetto di illusione ottica, di sovvertimenti anatomici fatti di incastri e nascondimenti delle membra –, ricomposte e portate in vita.

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La forza visionaria di Papaioannou lo rende capace di creare un’iconografia autonoma, personale, originale, costruita anche attraverso quello che è stato chiamato Body Mechanic System: corpi umani che si scompongono come pezzi di un quadro cubista. «Credo – dichiara Papaioannou – che il corpo umano, in quanto veicolo di percezioni, sia l’unità di misura dello spazio e anche l’unico medium attraverso cui comprendere ciò che ci circonda. L’interazione tra i corpi umani, gli oggetti e lo spazio organizzato rappresenta per me il veicolo di comprensione del mistero dell’esistenza».

In un flusso lento d’immagini perturbanti e posizionamenti plastici degli 11 performer, rigorosamente in completi neri, si ripete il ciclo della vita, morte e rinascita. Già nella sequenza iniziale, dove un uomo si denuda e si sdraia morto come un Cristo del Mantenga. Una figura avanza e lo copre con una stoffa leggera che viene subito fatta volare via dall’intervento di un altro uomo lasciando cadere un pannello divelto. Questa sequenza reiterata, che è un rigetto della morte, dà inizio al fascinoso e ipnotico viaggio esplorativo nel cuore di un’umanità all’origine del mondo, che la genialità di Papaioannou proietta nel presente e nel futuro in una continuità che non segue una narrazione ma evoca epoche e mondi immaginari.

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Viene dal futuro, sulla musica distorta di Richard Strauss dal poema sinfonico Così parlò Zarathustra – chiaro richiamo al film 2001 Odissea nello spazio di Kubrick –, l’astronauta che, ansimante, sbarca sulla scena e scava su quella crosta terrestre estraendo un uomo: forse Adamo, dato che, tolta la muta spaziale, apparirà una donna, una nuova Eva, che lo tiene adagiato come in una sacra Deposizione, lo aiuta poi ad articolare le membra, lo alza e prende in braccio scomparendo nel buio. Quel corpo issato poi su dei trampoli, scomposto come una marionetta, deposto su un tavolo sarà anche oggetto di studio anatomico nella pittorica scena che velocemente si compone raffigurando il celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp. Sarà anche figura centrale e pudica di una versione maschile della Nascita di Venere di Botticelli, mossa dal soffio lieve di Flora e Zefiro. Tenuto sospeso camminerà poi fino a iniziare una danza sinuosa di braccia fluide, gli sarà posto in mano un enorme libro della conoscenza, e delle arance da gustare; sosterà ad una fonte d’acqua, e incederà in bilico sopra un mappamondo dopo aver conosciuto la lotta rivale, il frantumarsi del corpo ingessato e liberato, pronto per andare con scarpe da ginnastica e zaino in spalla.

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Sono ancora molte le sequenze, le allegorie, i simboli e le evocazioni di The Great Tamer: dalla moltitudine di frecce lanciate che si conficcheranno sul pavimento diventando campo di grano dentro il quale scivolare; ai giochi con delle trombette in bocca; ai pezzi staccati del corpo affioranti da diverse fenditure come in un campo di battaglia e distribuiti fino a ricomporsi in un girotondo di fratellanza che esce da sottoterra e vi rientra. Per culminare nel ritrovamento di uno scheletro esposto sopra un pannello che, lentamente, al suono cupo di un tonfo, si sgretolerà in un mucchietto di ossa. Di tutto questo flusso calmo e costante di un immaginifico mondo di rovine che ci ha catturati ed emozionati, rimane, infine, solo la figura di un sopravvissuto, o di un uomo nuovo, che volteggia soffiando in aria un fazzoletto dorato senza lasciarlo cadere. Il soffio del Creatore su un nuovo mondo?

 

“The Great Tamer”, ideazione, concezione visiva e direzione Dimitris Papaioannou, scene e assistente alla regia Tina Tzoka, assistente ai costumi Aggelos Mendis, assistente alle luci Evina Vassilakopoulou, assistente alla fonica Giwrgos Poulios, suoni Kostas Michopoulos, music adaptation Stephanos Droussiotis, sculture Nectarios Dionysatos, costumi e decorazioni Maria Ilia. A Torino, Fonderie Limone Moncalieri, per il festival Torinodanza, fino al 22/9.

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