Tarkovskij maestro di tutti

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Con la pubblicazione integrale dei Diari – 700 pagine di grande formato con molte fotografie – nelle Edizioni della Meridiana (Firenze), sappiamo definitivamente l’essenziale su Andrej Tarkovskij (1932-86), che non è solo il maggiore regista cinematografico russo del Novecento, ma appare ormai nella sua statura di grande tra i grandi uomini del XX secolo. Cinque capolavori filmici – L’infanzia di Ivan, l’eccellente Andrei Rublëv, Lo specdi chio, Stalker, Sacrificio -, e poi due libri straordinari, Scolpire il tempo, che è veramente uno dei testi capitali del secolo, e questo capo d’opera involontario che comprende le annotazioni diaristiche dal 1970 al 1986, col titolo dapprima ironico-autoironico Martirologio, che poi si rivela, ripetendosi per ogni anno, sempre più drammatico e tragico, ci restituiscono ormai indelebilmente la statura di un artista, e ancor più, di un uomo, di rara purezza ideale, di grande coraggio, di nessuna vanità; di uno che ha costruito, anzi fatto emergere con incessante e contrastatissimo lavoro, la sua grandezza, senza averne la presunzione ma sempre, limpidamente, il sentimento profondo, rispecchiato nelle immagini rivelatrici dei suoi film e delle sue stesse parole; di uno che veramente ha saputo “scolpire il tempo”. I diari in particolare, scandendo il dato quotidiano più umile o più alto, dai conti della spesa ai rapporti con capi di stato alle intuizioni profonde alle costatazioni liete o desolate, costruiscono nel loro insieme involontario una straordinaria immagine rembrandiana – scopertissima umanità dolente e dignitosa, sofferente e sovrana – che non perde il filo della propria consapevolezza, non si frammenta e non si smarrisce pur tra le pastoie di difficoltà incredibilmente stratificate: dalle noie quotidiane e dalle difficoltà economiche, che tutti in qualche modo condividiamo, a un’inverosimile congerie di ostacoli professionali (che gli consentirono di fare solo sette film) quasi tutte dovute al sistema sovietico di controllo occhiuto e sospettoso, burocratico e ideologico, grottesco e criminale nella sua ansia ricattatoriale che riuscì effettivamente ad avvelenare gli anni migliori dell’artista, allentandosi solo quando gli unanimi molteplici riconoscimenti internazionali travolsero nel ridicolo le manovre di regime per diffamare, impedire o ritardare in ogni modo l’opera del genio. Ma allora subentrò la malattia mortale, due tumori, che costrinse Tarkovskij ad abbandonare tutto dopo il concitato lavoro in extremis di Sacrificio, e lo indusse ad entrare nell’ultima clinica solo con un crocifisso e il Vangelo. Generosamente, Ingmar Bergman ha dichiarato che Tarkovskij è il più grande perché porta nel cinema un nuovo linguaggio “che gli permette di affermare la vita come apparenza, la vita come sogno”. Ma Bergman sbaglia nella motivazione (la sua cultura secolarizzata lo induce in errore), perché per Tarkovskij oltre il sogno stesso c’è il valore supremo dell’immagine, che “tende all’infinito e conduce all’assoluto” (Scolpire il tem- po). È l’immagine, che Tarkovskij intende come figura, “simbolo dell’aspirazione dell’uomo verso l’ideale”, a costituire quella metafora del mondo, che nel suo non-sapere, nel suo accogliere il mistero, è capace di “fissare il tempo” spiritualmente, ovvero di “scolpirlo”; mentre ogni sapere, ogni pretesa di sapere, banalizza e dissolve il tempo nell’insignificanza. “L’uomo non vive per essere felice. Vi sono cose molto più importanti della felicità”. Tarkovskij lo ripete spesso, perché sa e dice altrettanto spesso che solo la ricerca (non il preteso possesso) della verità rende la vita degna di essere vissuta; mentre esattamente il contrario sta accadendo all’uomo contemporaneo che “non è più capace di sperare in avvenimenti inattesi, non dominati dalla logica “normale””, e perciò non ha più il senso della profonda verità sotto la superficie consueta delle cose. Ma poiché la verità è infinitamente misteriosa, e perciò poetica, egli non ha più neppure il senso della bellezza. In Andrej Rublëv gli orrori dell’invasione tartara e lo strazio dell’anima del monaco-pittore Andrej si sciolgono, dopo quattro ore di doloroso bianco-e-nero, nel lentissimo tripudio di colori dell’icona celeberrima della Trinità. “Il mio futuro – dice medesimamente Tarkovskij -, è il calice che non può passare da me e di conseguenza bisogna berlo fino in fondo”. L’arte diventa allora (Scolpire il tempo) “una dichiarazione d’amore, un riconoscimento della propria dipendenza dagli altri uomini, unaconfessione, un atto inconsapevole, ma che rispecchia l’autentico significato della vita: 1’Amore e il Sacrificio”. Spiega G. Chiaramonte nella sua breve densa introduzione ai Diari: “Affrontare il dolore per quanto terribile esso appaia, attraversare la soglia della stessa morte, pur di non tradire la verità della vocazione, non fa più paura perché, nella forza della fede e nel coraggio della speranza, ognuno può intravvedere, al di là di questa soglia oscura, la luce del presente, il tempo nuovo e ultimo che è prima del passato e che è dopo il futuro”. Dunque, ecco la “rinuncia” di Tarkovskij: al suo io psicologico, perché il sacrificio è “l’unica modalità di esistenza della personalità”, e la condizione ferrea affinché l’opera d’arte (dice d’accordo con T.S. Eliot) sia il frutto non-individualistico di un compito assegnato da Dio al servizio di tutti; al possesso dell’arte, che invece è primariamente rapporto con Dio (“La religione e l’arte sono due facce della stessa medaglia”), e a questo proposito, nei Diari, tra sconforti e speranze ci sono preghiere nude e purissime; all’illusione-presunzione che la conoscenza, e non l’amore, possa salvare il mondo (“Il sapere è qualcosa che si autovaluta. La rinuncia al sapere è il risultato del sapere stesso”); a tutti i surrogati (successo, gloria, ecc.) del destino dell’arte, che è invece “la ricerca di Dio nell’uomo”; infine a sé stesso anche fisicamente (nel momento in cui il futuro gli si spalancava libero): l’immagine che lo ritrae alla fine della vita in “colloquio” con un uccellino è una delle più sconvolgenti da me mai viste. L’uomo sfuggito alla soffocante prigione dell’Est e altrettanto sfuggente a quella dell’Ovest, “centro dell’errata, tragica civiltà tecnologica (…) ribelle contro Dio, avida, cervellotica “, è diventato, ridotto a niente, un maestro per tutti.

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