Taglio al numero dei parlamentari, referendum e democrazia

Un quinto dei senatori raggiunge l'accordo per chiedere il referendum confermativo sulla legge costituzionale che riduce il numero dei parlamentari. Un contributo nel merito, non una presa di posizione di questa testata, su una questione complessa che merita il dibattito pubblico
ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Nei prossimi mesi saremo chiamati ad approvare, per referendum, la riforma costituzionale che riduce significativamente il numero di deputati (da 630 a 400) e senatori (da 315 a 200). È stato, infatti, raggiunto il quorum di un quinto dei membri di una camera (nel caso specifico del Senato) che l’art. 138 Cost. richiede perché le leggi di revisione costituzionale siano sottoposte a referendum popolare.

Si tratta di un istituto di garanzia che il costituente ha appositamente previsto per permettere a minoranze parlamentari di una certa consistenza numerica di verificare se la volontà parlamentare corrisponda a quella della maggioranza degli elettori, quando, come nel caso in specie, la revisione costituzionale non sia stata approvata da entrambe le camere in seconda votazione (dopo almeno tre mesi) da un’ampia maggioranza (i due terzi dei componenti). Inoltre, poiché si tratta di confermare o meno quanto deliberato dal Parlamento, tale referendum, a differenza di quello abrogativo, sarà comunque valido, a prescindere dal numero di quanti andranno a votare.

Indipendentemente dall’opinione che ciascuno può avere sul tema, è certamente opportuno che gli elettori possano essere maggiormente informati, riflettere e deliberare su una riforma costituzionale che, presentata all’insegna del taglio dei costi della politica e della maggiore efficienza parlamentare, rischia a mio parere di avere effetti tutt’altro che marginali sulla democrazia parlamentare.

Premesso che i vantati risparmi di spesa sarebbero veramente risibili (pari, secondo quanto calcolato, allo 0,007% della spesa pubblica: l’equivalente per elettore di tre tazzine di caffè all’anno!), la riduzione di poco più di un terzo del numero dei parlamentari avrà conseguenze che andranno ben al di là del profilo meramente numerico.

Sul piano della rappresentanza politica a livello europeo, le nostre saranno le camere con il più alto numero medio di abitanti per parlamentare eletto: da 96 a 151 mila alla Camera; da 188 a 302 mila al Senato. Ciò provocherà un duplice effetto:

a) la rappresentanza politica dei territori ne uscirà indebolita, aumentando il distacco tra rappresentati e rappresentanti. Basti pensare che alcune regioni vedranno sensibilmente diminuito il numero dei senatori da eleggere (Liguria e Marche da 8 a 5; Friuli Venezia Giulia e Abruzzo da 7 a 4; Umbria e Basilicata da 7 a 3); per tacere degli appena 8 deputati e 4 senatori che dovrebbero rappresentare i milioni di italiani all’estero;

b) di contro i parlamentari, essendo di meno, potrebbero essere soggetti ad una ancor più rigida disciplina di gruppo e di partito oppure, al contrario, sfruttare la loro importanza numerica, talora decisiva, per condizionare le scelte politiche in base ad interessi personali.

Sul piano elettorale è aritmeticamente evidente che la riduzione del numero dei parlamentari da eleggere nelle circoscrizioni e, quindi, nei collegi plurinominali, aumenterà il numero di voti necessari per conquistare il seggio (con presumibile aumento dei costi delle campagne elettorali), introducendo quindi una soglia di sbarramento implicita più elevata rispetto a quella oggi espressamente prevista del 3%, finendo per penalizzare le forze politiche di minoranza.

Infine, sul piano parlamentare, la riduzione del numero degli eletti avrà effetti tali sull’organizzazione e sul funzionamento delle camere da compromettere, anziché – come auspicato – aumentare, la loro efficienza e produttività. Non è sempre vero, infatti, e comunque rimane tutto da dimostrare l’assioma per cui in meno si lavora meglio. Se è vero, infatti, che la Camera potrebbe organizzarsi e funzionare anche con 400 deputati, dato che il Senato si è sinora organizzato ed ha funzionato con 315 membri, è tutto da verificare come possa il Senato continuare a svolgere le sue attuali funzioni, eguali a quella della Camera, con appena 200 senatori. Non si tratterà infatti solo di ridurre in proporzione i quorum oggi previsti per attivare una procedura o per la presentazione di un atto parlamentare, ma di ripensare tutta l’organizzazione strutturale delle camere.

Si pensi, ad esempio, alle norme parlamentari sui gruppi politici che oggi prevedono per la loro costituzione un certo numero di deputati e senatori, che andrà ovviamente ridotto in proporzione. Ciò però comporterà la riduzione di quorum numerici già bassi, come nel caso dei tre deputati richiesti per essere autorizzati dal Presidente della Camera a costituire una componente politica nel gruppo misto: si dovrebbero ridurre a due? Oppure basterebbe un solo deputato, introducendo quell’ossimoro che sono i “gruppi monocellulari”?

In secondo luogo, la distribuzione di un numero così ridotto di parlamentari tra le attuali 14 commissioni – che sono il vero motore dell’attività parlamentare – diminuirebbe il numero dei loro componenti, con conseguente aggravio di lavoro. Al Senato, addirittura, avremmo commissioni composte da appena 13-14 senatori, con la conseguenza che per approvare una legge basterebbe il voto favorevole di appena quattro senatori (13:2=7 numero legale, 7:2=4 maggioranza).

Si potrebbe rimediare accorpando le commissioni del Senato, ma una simile modifica andrebbe giocoforza estesa anche alla Camera e comporterebbe comunque il loro disallineamento rispetto alle attuali corrispondenti strutture ministeriali. Infine, i pochi parlamentari della minoranza, dovendo seguire i lavori di più commissioni cui verrebbero magari assegnati per dare rappresentanza alla loro forza politica, non avendo il dono della bilocazione, dovrebbero inevitabilmente fare delle scelte, privando così la loro parte politica della possibilità di esercitare la fondamentale funzione ispettiva e di controllo, specie quando di opposizione.

Per evitare tali effetti negativi, sarebbe bastato “ridurre la riduzione” (ad esempio 500 deputati e 250 senatori) o, ancora meglio, ripensare il nostro bicameralismo, concentrando i proposti 600 parlamentari nella sola Camera dei deputati e trasformando il Senato in camera di rappresentanza territoriale, come in altri Stati (USA, Germania, Spagna) con cui si fa spesso il paragone numerico, dimenticandosi che si tratta di forme di Stato diverse.

Chi scrive è perfettamente consapevole del fatto che oggi come non mai criticare la riduzione del numero dei parlamentari è come offrire il petto al plotone d’esecuzione. Eppure, quella che apparentemente può sembrare una mera questione di numeri e/o di costi è destinata a produrre effetti negativi di non poco conto, come si è cercato di dimostrare. La speranza è che il referendum serva agli elettori ad uscire dalla facile demagogia antiparlamentare per riflettere sul valore e, perché no?, anche sugli attuali limiti della nostra democrazia rappresentativa parlamentare. 

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