Spirito europeo in salsa latina

Mentre gli Stati Uniti stanno assistendo impotenti al fallimento del loro preteso tentativo di esportare con una guerra la democrazia in Iraq, il New York Times denuncia un sensibile e generalizzato regresso delle simpatie per le istituzioni democratiche fra i ceti poveri dei paesi dell’America Latina, dove i fallimenti dei leader eletti dal popolo farebbero rimpiangere a molti la dittatura. Non per niente negli ultimi anni ben sei capi di stato regolarmente eletti sono stati cacciati da violenti disordini. Non è un fenomeno nuovo. Anche noi europei abbiamo conosciuto queste tentazioni che hanno portato, nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale, all’affermarsi di molti e forti regimi totalitari, cacciati solo da un secondo e ancor più terribile conflitto. Le analisi fatte a posteriori hanno dimostrato quanto i miopi egoismi dei paesi ricchi di allora siano stati alla base di quei fenomeni di regresso verso la dittatura di molti paesi, quali l’Italia, la Germania, la Spagna e diversi altri. Oggi, ci troviamo avvantaggiati dai nuovi equilibri raggiunti grazie alle istituzioni internazionali, particolarmente in Europa, con l’affermarsi e l’espandersi dell’Unione. E tuttavia, mentre siamo impegnati a risolvere i pur prevedibili problemi insorti anche a causa di questi sviluppi, rischiamo di non tenere nel debito conto altri rapporti che ci legano a porzioni cospicue del pianeta a noi prossime, o per contiguità fisica, come l’Africa, o per contiguità di sangue e di cultura, come l’America Latina. Cosa si aspettano da noi questi cugini che stanno attraversando momenti così difficili? Lo abbiamo chiesto ad Alberto Barlocci, direttore di Ciudad Nueva argentina, che segue da tempo con particolare sensibilità questi temi. L’America Latina segue con interesse l’evoluzione del processo di integrazione dell’Unione europea. Il suo allargamento a partire dal maggio scorso rappresenta inoltre una tappa storica, perché suppone una ulteriore rottura con un passato bipolare totalmente superato. Un tale interesse lo si deve a due ragioni. Una è culturale. Esistono una coscienza latinoamericana ed un senso di fraternità tra i nostri popoli che ci fanno leggere in chiave naturalmente positiva ogni processo di integrazione. Ciò si deve alla comune anima cristiana, che ha fecondato questo continente così come oggi lo conosciamo. Non è poi secondario che, praticamente dal Messico all’Argentina, con poche eccezioni tra cui il Brasile , si parla la stessa lingua. L’altra ragione è politica: l’Ue è un esempio autorevole che indica un cammino alle nostre esperienze di integrazione, per le quali vari paesi latinoamericani dovranno prepararsi consolidando prima di tutto le loro istituzioni democratiche nazionali, troppo spesso immature e viziate da storture. I diversi paesi dell’America Latina sono variamente collegati fra loro da una serie di trattati che li impegnano a integrare le proprie economie. A che punto siamo? che punto siamo? Questi processi di integrazione, oggi sono, per vari motivi, apparentemente fermi. Non convince la proposta Usa di un’Area di libero commercio americana (Alca), per gli squilibri e le asimmetrie economiche esistenti tra paesi come, ad esempio, Haiti ed il Canada. Il rischio è di trasformare i paesi latinoamericani, di per sé poveri, in destinatari delle eccedenze produttive di economie forti, come quella degli Usa. Il Patto andino (Colombia, Perù, Bolivia, Venezuela, Ecuador), non registra progressi sostanziali. Il progetto più ambizioso in questo contesto è il Mercosur (Mercato comune formato da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). Esso prevede un calendario di progressiva eliminazione delle barriere doganali ed aspira ad una coordinazione macroeconomica, con un progetto di moneta unica. Ma oggi tali mete appaiono ancora lontane. Anche il Parlamento latinoamericano (Parlatino), che pure esiste, è una esperienza più che altro virtuale, priva come è di una sede propria e di sessioni regolari. E i rapporti con i paesi dell’Unione europea quale fase attraversano? Esiste un interesse crescente per l’evoluzione dell’Ue. Bisogna inoltre segnalare le positive esperienze di partenariato commerciale realizzate in questi anni. Ciò nonostante, esistono anche forti dubbi in merito a come si svilupperà il rapporto politico tra le due regioni. Infatti non va dimenticato che da un lato la Ue pone barriere ai prodotti latinoamericani, dall’altro esercita pressioni per venderci i propri. Si costata con preoccupazione che il Primo mondo spende circa 1.000 milioni di dollari al giorno per sussidiare i propri prodotti, e ciò distorce il mercato che tutti predicano come libero. Inoltre, vari paesi della Ue sono membri del G7 (Germania, Francia, Inghilterra, Italia), e dunque dotati di un potere che viene usato in altri ambiti di decisione (di dubbio valore democratico). È il caso, ad esempio, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, che premono fortemente sui nostri governi esigendo una sempre maggiore apertura commerciale. Apertura che poi sia la Ue, sia i paesi menzionati non mettono in pratica. Dunque, qual è la vera politica della Ue?. A parole sembra essere molto aperta ed amichevole. Bisogna vedere se alle promesse seguono i fatti. È proprio di queste incongruenze che ci lamentiamo. Il danno al nostro commercio estero per questo stato di cose è aggravato dal fatto che la maggior parte dei paesi latinoamericani è fortemente indebitata, e per poter pagare tali debiti (che i tassi di interesse internazionali hanno accresciuto in modo smisurato quanto illegittimo) è indispensabile l’accesso al mercato che viene invece negato. Il processo di integrazione europeo suscita dunque speranze e timori entrambi giustificati. L’attuale ampliamento significa che la Ue ha compreso che ciò non l’avrebbe indebolita, ma che avrebbe aggiunto nuove sinergie al processo di integrazione che sempre più sarà anche politico e culturale. Crediamo che anche nei rapporti tra blocchi regionali vadano superati timori e chiusure, per una cooperazione che non potrà che produrre uno sviluppo maggiore e sostenibile per tutti. Senza dimenticare che già Paolo VI, diceva che lo sviluppo è il nuovo nome della pace. I debiti odiosi Il contenzioso più pesante riguarda i debiti contratti da paesi economicamente deboli, Argentina compresa,e divenuti col passare del tempo sempre più difficilmente estinguibili. Una scuola di pensiero li defini sce inesigibili perché contratti da un potere illegittimo. La recente proposta del governo di Washington di considerare odiosi i debiti contratti dal governo dell’ex dittatore Saddam Hussein ha riportato alla ribalta un principio poco conosciuto del diritto internazionale, suscettibile di applicazione in merito alla questione del debito estero. Alla base di questo principio vi è una idea abbastanza semplice: non si è tenuti al pagamento dei debiti contratti da un potere illegittimo a danno degli interessi del paese che pretende rappresentare. È il caso dei debiti di Mobutu Sese Seko, giá dittatore dell’ex Zaire, ma è stato invocato anche nel caso dei debiti del regime genocida del Ruanda. Anche se con grande disparità di criteri di applicazione, gli Stati Uniti hanno avuto abbastanza a che vedere con la casistica di questo principio. Infatti, furono i primi ad applicarlo alla fine della guerra con la Spagna, nel 1898, combattuta per l’indipendenza di Cuba. Washington aveva appoggiato la liberazione dell’isola caraibica dal dominio spagnolo. Persa la guerra, nel corso dei negoziati di pace, il governo di Madrid reclamò dai nuovi governanti statunitensi il pagamento dei debiti cubani. Il governo di Washington si oppose decisamente, con la motivazione che si trattava dei debiti di un governo occupante contratti contro gli interessi dei cubani, pertanto, non andavano pagati. Coloro che hanno concesso i crediti sostennero gli statunitensi fin dall’inizio hanno assunto i rischi dell’investimento. Il reclamo spagnolo rimase sterile. Qualche anno piú tardi, nel 1925, William H. Taft, prestigioso giurista, ex presidente degli Stati Uniti e presidente della Corte suprema, ricorse al principio del debito odioso nell’arbitraggio del contenzioso sorto tra il Regno Unito e Costa Rica. Il motivo del litigio era il pagamento dei debiti del dittatore costaricano Fernando Tinoco assunti, prima di essere spodestato, con banche inglesi e canadesi. Taft riconobbe il diritto del governo legittimo del Costa Rica a non pagar li, adducendo l’argomento che Tinoco aveva usato fondi per fini personali, estranei agli interessi del suo paese. In effetti, i principali contributi teorici alla dottrina del debito odioso, provengono dal giurista russo Alexander Nahum Sack. Ex ministro dello zar, e più tardi ministro del governo rivoluzionario sovietico, professore di diritto a Parigi, Sack sostenne questa tesi proprio mentre vari paesi cambiavano il loro regime o si trasformavano da colonie in stati indipendenti. La vigenza di questa dottrina causò non pochi timori. Non senza una certa preoccupazione, nel 1982, gli assessori legali del First National Bank di Chicago mettevano in stato d’allerta il consiglio di amministrazione perché esistono governi successori che hanno invocato dottrine fondate sull’uso odioso o ostile dei fondi, i creditori dovrebbero descri vere in dettaglio l’uso dei fondi concessi e, nei limiti del possibile, impegnare chi li riceve per rappresentazione, garanzia e vigilanza, a tale uso. L’avviso era chiaro: in caso di applicazione della dottrina del debito odioso, varie banche non avrebbero potuto recuperare i fondi prestati durante decenni a figure come il congolese Mobutu o l’ex dittatore filippino Marcos, abituati a incamerare nel proprio patrimonio personale buona parte delle entrate dello stato, prestiti internazionali inclusi. La recente polemica per la decisione del governo argentino di sospendere i pagamenti delle quote del debito estero sposta sul piano internazionale la questione della legittimità di tale debito, dato che almeno una parte di esso dovrebbe essere suscettibile di venire dichiarata odiosa. La sentenza emessa nel 2000 dal giudice federale Jorge L. Ballestero, in base allo studio realizzato da un gruppo di periti sui debiti contratti dalla dittatura militare tra il 1976 ed il 1983, lascia al riguardo pochi dubbi. Durante tale periodo, il debito estero argentino lievitò senza nessuna necessità e senza che il paese ne abbia beneficiato in alcun modo da meno di 8 miliardi di dollari a 43 miliardi. Una cifra astronomica per quei tempi, che oggi andrebbe moltiplicata più volte. Nelle sue conclusioni, il giudice indica che è stata messa in evidenza la manifesta arbitrarietà con la quale si mossero le autorità dello stato, violando le disposizioni che fissano il funzionamento della Banca Centrale (equivalente alla Banca d’Italia). Per questo giudice non esiste nessun dubbio sul fatto che sia stata applicata una politica economica avversa agli interessi della nazione. Il debito estero venne incrementato in forma grossolana a partire dal 1976, attraverso la realizzazione di una politica economica che ha messo in ginocchio il paese ricorrendo a diversi metodi (…) che tendevano a beneficiare e sostenere imprese ed affari privati nazionali e stranieri a danno di società ed imprese statali. Successivamente, tale indebitamento si trasformò in una zavorra tale da far sprofondare il paese nella perversa spirale per la quale ha continuato a indebitarsi per pagare appena gli interessi del debito estero. A poco più di vent’anni dal ritorno alla democrazia (1983), e nonostante siano stati pagati circa 200 miliardi di dollari grazie anche all’applicazione di tassi di interesse usurai , il debito estero argentino è oggi di circa 170 miliardi. Ma il caso argentino non è l’unico. Nel Terzo mondo abbondano precedenti analoghi, che suggeriscono l’urgente necessità di una maggiore trasparenza di efficaci meccanismi di controllo in materia di concessione e di destinazione di prestiti, e di ristrutturazione dei debiti internazionali, onde evitare che il debito estero si trasformi in uno strumento di controllo e di sottomissione politica.

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