Sotto il vulcano

Un territorio a rischio, quello sottoposto al Vesuvio, dove bellezza, degrado ed altre cose estreme vanno a braccetto come nulla fosse.

Sotto il vulcano. Non a caso ho preso a prestito il titolo di questo itinerario dal famoso romanzo di Malcolm Lowry ambientato in Messico, dal quale il film omonimo diretto da John Huston nel 1984. Mi trovo infatti a Portici, in pieno territorio vesuviano, lungo il centralissimo corso Garibaldi. Là dove il settecentesco palazzo Ruffo di Bagnara fa angolo con via Gianturco, rileggo l’epitaffio marmoreo che il viceré Emanuele Fonseca Zunica, regnante Filippo IV di Spagna, fece realizzare l’anno dopo l’eruzione del Vesuvio del 1631, la più violenta e distruttiva dell’ultimo millennio, che fece oltre 4 mila vittime e devastò un’area di quasi 500 chilometri quadrati. La lunga iscrizione ammonitrice si rivolge a noi posteri, esortandoci a lasciare queste contrade già alle prime avvisaglie di risveglio del vulcano, senza attardarci a recuperare i beni. E conclude nel suo linguaggio ampolloso: «Se hai senno, di un marmo che ti parla odi la voce,/ non ti curar dei lari; senza indugi fuggi».

Essendo però l’epitaffio scritto in latino, fu semplicemente ignorato dalla gente del popolo, che continuò ad essere attaccata ai propri “lari” (oggi però una targa dal Lions Club porticese accanto al monumento ne riporta la traduzione italiana). Che non ne avesse tenuto conto neppure la gente istruita lo dimostra il fatto che già nel 1738 il re delle Due Sicilie Carlo di Borbone, ammaliato dalle bellezze naturalistiche del territorio, aveva deciso di far costruire a Portici la propria residenza estiva dove trasferirsi con la consorte Amalia di Sassonia. Non solo, il sovrano aveva indotto clero e nobiltà a seguirlo nello stesso sito, allettando entrambi con l’esenzione fiscale degli immobili costruiti.

Fu così realizzata dai più rinomati architetti dell’epoca, lungo la regia strada delle Calabrie, una serie di lussuose ville con parchi punteggiati di fontane, padiglioni, gazebo che si prolungavano fino alle spiagge. Quel susseguirsi di dimore di delizie da Ercolano a Torre del Greco – degna corona al palazzo reale di Portici, oggi museo e sede della facoltà di Agraria – costituì il cosiddetto “Miglio d’Oro”: d’oro per la quantità di agrumeti i cui frutti spiccavano nel fogliame verde cupo come i mitologici pomi aurei delle Esperidi.

Così, in barba all’epitaffio del viceré, era sorta quasi una nuova città ai piedi del Vesuvio, che quando non eruttava esibiva comunque un sempre inquietante pennacchio grigiastro. Del resto, non bastava san Gennaro a frenarne gli ardori, come era avvenuto miracolosamente nell’eruzione del 1631 che aveva minacciato la stessa Napoli?

San Gennaro, tuttavia, non impedì un’altra eruzione disastrosa: quella del 1794, le cui colate laviche travolsero Torre del Greco, mettendo in fuga i suoi 15 mila abitanti (oggi saliti a 85 mila). Ma si sa, fin dai tempi di Pompei ed Ercolano la memoria storica delle popolazioni vesuviane è stata corta: fatto sta che la cittadina venne ricostruita e la gente tornò a viverci.

Né ebbe più fortuna del viceré spagnolo Giacomo Leopardi, il cui monito a proposito dello «sterminator Vesevo» rimase anch’esso inascoltato. È contenuto ne La ginestra, penultima lirica scritta nella primavera del 1836 nella villa vesuviana dove si era rifugiato dall’epidemia di colera che imperversava a Napoli: «Ben mille ed ottocento/anni varcàr poi che spariro, oppressi/dall’ignea forza, i popolati seggi,/ e il villanello intento/ai vigneti, che a stento in questi campi/ nutre la morta zolla e incenerita,/ancor leva lo sguardo/ sospettoso alla vetta/fatal, che nulla mai fatta più mite/ ancor siede tremenda, ancor minaccia/a lui strage ed ai figli ed agli averi/lor poverelli».

Leopardi morì il 14 giugno 1837 a Napoli, dov’era tornato in febbraio assieme all’amico Ranieri e alla sorella Paolina. Vissuto ancora un paio di anni, avrebbe forse commentato, celebrandola magari in versi, l’inaugurazione – il 3 ottobre 1839 – della Napoli-Portici, la prima ferrovia a vapore costruita in Italia per volere di Ferdinando II di Borbone. Era l’inizio di una nuova era, che avrebbe visto trionfare in questa terra dove si concentrava ogni bellezza anche il predominio della macchina, rappresentato dalle nuove officine di Pietrarsa, località costiera adiacente a Portici. Il primo nucleo di questo opificio, che si aggiungeva al non lontano cantiere navale di Castellammare di Stabia fondato nel 1783 anch’esso dai Borbone, era destinato, oltre che alla produzione di materiale meccanico e pirotecnico per usi militari, alla costruzione e riparazione di locomotive e vagoni ferroviari.

Chiuse ufficialmente nel 1975, a partire dal 1989 le officine di Pietrarsa ospitano, mirabilmente restaurate, un Museo nazionale ferroviario i cui padiglioni vedono allineate in bell’ordine varie decine di treni storici, compresa una riproduzione perfetta del primo convoglio. Con i suoi modellini, macchinari e arredi ferroviari, con il suo giardino botanico affacciato sul golfo e sulle isole partenopee, è un luogo incantato che fa dimenticare le deturpazioni edilizie di un territorio sovraffollato, dove si continua a non tener conto del pericolo rappresentato dal Vesuvio.

Eppure anche in tempi moderni si sono registrate eruzioni tra le più violente: la prima del 1906 durò 17 giorni, lasciando fluire in varie direzioni 20 milioni di metri cubi di lava; mentre nella seconda del 1944, che inaugurò l’attuale fase di quiescenza del vulcano, andarono distrutti i paesi di Massa di Somma e San Sebastiano, arrivando le ceneri fino in Albania.

Si deve certo alla feracità dei luoghi, che assicurano produzioni agricole di pregio, se nell’arco di tanti secoli le popolazioni locali sono rimaste tenacemente abbarbicate attorno a questo temibile vicino. Sconvolgente è la visione aerea che mostra un cono vulcanico quasi abbracciato da una colata, non lavica stavolta, ma di cemento, formata da un’edilizia molto spesso di speculazione in mezzo alla quale sopravvivono rari esemplari di ville e palazzi signorili recuperati o in degrado. Come se i 63 comuni vesuviani e le tre circoscrizioni metropolitane di Napoli – tra le quali appunto Portici – formassero ormai un’unica immensa città.

Vulcano più pericoloso al mondo e per questo più monitorato, dal 1995 il Vesuvio ospita uno stupendo parco naturale che si sviluppa su una superficie di 8.482 ettari. A partire dallo stesso anno la comunità scientifica ha elaborato a più riprese un piano nazionale di emergenza che ai primi segnali di eruzione imminente (prevista dagli scienziati) prevede l’evacuazione della popolazione distribuita in tre zone a diverso rischio: 670 mila gli abitanti di quella più vicina al cratere, mentre sono milioni quelli della zona più esterna, che potrebbe essere interessata dalla ricaduta di ceneri e lapilli.

E intanto si susseguono le generazioni, continuano le attività di sempre, le costruzioni e le distruzioni, la tutela dei beni culturali e naturalistici e gli attentati alla bellezza, le opere sociali per i più svantaggiati e i traffici illegali. Tutto continua… sotto il vulcano!

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