Si può credere ad Aung San Suu Kyi?

Il premio Nobel 1991 rappresenta ancora oggi l’unica speranza credibile per l’ex-Birmania. Nonostante la campagna mediatica scatenato contro di lei, rimane l’unica garanzia di pace per questo martoriato Paese

Si assistite in queste settimane a una vera e propria campagna mediatica, iniziata lo scorso agosto, contro Aung San Suu Kyi: talvolta accade, soprattutto a coloro che nella vita hanno costruito qualcosa di buono, di vero e di bello a livello internazionale. E lei, Premio Nobel per la pace 1991, tutto questo lo ha davvero fatto. Negli anni della sanguinosa rivoluzione, cioè dal 1988 fino a oggi, Aung San Suu Kyi non si è mai tirata indietro, affrontando situazioni molto complesse e sanguinose per il suo Paese.

Tra le sue qualità in effetti ci sono un equilibrio e un’intelligenza fuori dal comune. È questo che l’ha salvata negli anni delle repressione, dopo il 1988, periodo nel quale migliaia di oppositori al regime militare sono stati uccisi e centinaia di migliaia di essi sono scappati in Thailandia. Da sola si è opposta al generale Ne Win pagando un caro prezzo, la prigione domiciliare, e poi opponendosi a Than Shwe, un altro crudele e alquanto stravagante generale che amava regalare chili di oro alla figlia per il suo matrimonio e che desiderava tanto «fare una sorpresa» al nipotino, comprandogli niente meno che la squadra di calcio del Manchester United, in contanti naturalmente. E tutto ciò mentre il Myanmar era uno dei Paesi più poveri al mondo.

È importante chiarire alcuni punti. Si è chiesto di “strappare” la pergamena data alla Suu Kyi in occasione del premio Nobel 1991. Da dove vengono le richieste? Arrivano in particolare da ambienti mediorientali (soprattutto sunniti). Appoggiati da testate laiche come la Bbc, Newsweek o al Jazeera, laiche certo, ma anche ben attente a difendere determinati interessi. Ormai sono circa 3 anni che vengono avanzate accuse più o meno forti e dirette contro Aung San Suu Kyi accusandola di non aver fatto nulla per proteggere il gruppo minoritario dei rohingya, o addirittura di «proteggere a spada tratta» l’operato delle forze armate del Myanmar, il Tatmadaw.

Tali articoli appaiono ben scritti e coordinati, come se si volesse spostare l’attenzione da altri problemi su questo grave scenario che coinvolge 700 mila rifugiati sfuggiti dalla Stato del Rakhine dal 25 Agosto del 2017 e complessivamente circa un milione in Bangladesh. Si tratta sicuramente di un’emergenza umanitaria straordinaria che, come la stessa Aung San Suu Kyi ha affermato nei giorni scorsi, «potrebbe essere stata gestita meglio». Sostanzialmente tali accuse sembrano voler distogliere l’attenzione da altri problemi ben più gravi – se possiamo parlare di gradi di gravità – come la Siria o lo Yemen, in cui il mondo sunnita è in gravi difficoltà. Il numero dei profughi e dei morti in Siria e Yemen è enormemente superiore a quello dei Rohingya. Esiste un rapporto di causa ed effetto tra questi due scenari? Difficile affermarlo con sicurezza, ma la coincidenza fa riflettere. Sappiamo bene che nell’infosfera planetaria i grandi media sono capaci di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi più scottanti sovrapponendone altri di minore importanza.

Ad Aung San Suu Kyi bisognerebbe quindi togliere il Premio Nobel? È una riflessione poco lucida. In Norvegia, la commissione per l’assegnazione del Premio Nobel mercoledì scorso ha affermato: «Aung San Suu Kyi non può essere privata del premio, in quanto le è stato assegnato per il suo operato in favore della pace prima del 1991». Un operato, possiamo aggiungere, che ha salvato la vita a milioni di persone dalla durissima repressione del regime militare dell’allora Burma. Il capo della commissione del Premio Nobel, la signora Berit Reiss-Andersen ha ribadito più tardi che «non ci compete controllare il lavoro di coloro che vincono il premio dopo che lo hanno ricevuto. Sta a loro salvaguardare la loro reputazione». Parole chiare.

C’è un altro caso venuto alla ribalta in questi giorni: si tratta di quello dei due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, condannati a sette anni di carcere per aver infranto la legge e aver portato avanti un’inchiesta di cui era proibito parlare: la sentenza si è basata su una legge redatta e approvata al tempo coloniale, ma pur sempre una legge di uno Stato sovrano. Ed i giornalisti questo lo sapevano. Giovedì scorso, ad Hanoi, in occasione del Word Economy Forum, la Aung San Suu Kyi ha affermato che «i giornalisti sono stati trattati con riguardo e nel rispetto della legge, e che si possono leggere liberamente le motivazione della condanna redatta dai giudici». Nel Sud-Est asiatico è consueto che, così come in non poche nazioni del mondo democratico occidentale, quando s’infrange una legge a proposito della sicurezza nazionale, il giornalista, o chiunque esso sia, venga condannato e incarcerato.

Nella bella e libera Thailandia, giusto per fare un esempio, per un like su una pagina Facebook contro il governo si prendono 15 anni di carcere: e la settimana scorsa, per aver prodotto e venduto delle semplici magliette colorate “scostumate” varie persone sono finite in carcere per aver attentato alla sicurezza nazionale. Staremo a vedere come andrà per i due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo: molti osservatori pensano che saranno presto liberati e espulsi dal Paese. Le pressioni dalla Commissione europea, attraverso il suo massimo rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, sono molto insistenti verso il Myanmar. Va però notato come tutti i privilegi assegnati al Myanmar dal punto di vista commerciale dopo la prima “democratizzazione” siano rimasti invariati.

Aung San Suu Kyi naviga tra questi marosi e scogli, cercando di mantenere la barca dritta sulle onde, evitando che affondi. È la storia che giudica le situazioni in cui una persona cerca, senza scendere a compromessi, il maggior bene possibile, o piuttosto il minor male possibile.

 

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