Senza cultura

Chi l’ha uccisa? Indagine su un delitto.
Giovanni Testori

Inutile negare il delitto: il cadavere c’è, il movente o i moventi anche, ora basta identificare lo o gli assassini. Per farlo occorre percorrere il “paesaggio”, fare, come si dice, indagini di campo o di ambiente. Che danno questi risultati:

· Della lingua italiana importa poco a tutti, se ne fa quotidianamente strame: e diceva Octavio Paz, poeta premio Nobel, che la corruzione di un popolo comincia dalla sua sintassi. Il che dimostra che l’identità culturale da noi è vampirizzata da quella (o quelle) politica, di costume, televisiva, giornalistica ecc., e non esiste se non come loro maschera, ormai anch’essa a pezzi.

· Delle fonti di cultura (università, ricerca, editoria, centri culturali) è particolarmente triste parlare: sono in mano a clan e gruppi di potere, consorterie ideologiche, palestre di carrierismo politico: si salva qualche gruppo culturale locale non ideologizzato-politicizzato-economico, che perciò può poco, pochissimo, e non è quasi “visibile”; e qualche editore minore che fa quello che può.

· Della cultura come tale (a parte l’equivoco, da sgombrare subito, che essa consista nell’erudizione, nell’aver letto seimila libri ecc.); della cultura come tale – un’educazione, una coltivazione di sé e degli altri, un’atmosfera e un clima fondamentale e costitutivo non surrogabile e precedente ogni altra modalità di esistenza (uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, sano o malato), un gusto, un affinamento, una musica interiore, uno sguardo non materialmente ebete sulle cose, gli altri, la storia, il futuro.

 

Questa l’analisi ambientale. Mancano i mandanti e gli esecutori.

Tra quaranta e vent’anni fa circa su ciò fecero buone indagini, sia pure diverse e diversamente orientate, ma spesso profondamente convergenti ovvero convergenti nel profondo oltre la superficie verbale, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori, entrambi guardati con curiosità, poi criticati, poi esecrati, poi espulsi, l’uno soprattutto dalla ortodossia marxista, l’altro dal conformismo liberal-radicale, entrambi questi establishment essendo materialisti, relativisti, e ormai nichilisti.

Il potere tecnocratico avanzante (che, diceva Pasolini, «se ne ride del Vangelo») sull’onda del più puro e cioè velenoso nichilismo; la “morte”, ma io direi piuttosto la putrefazione, delle ideologie, ben peggiore della loro morte; il rovesciarsi televisivo e massmediatico delle persone, con l’interno che diventa esterno e viceversa, al grido «sono visto quindi esisto», o almeno «vedo, perciò sogno di vivere almeno un po’», oggi moltiplicato e indefinitamente sfaccettato da Internet, che può fornire perfetti alibi per non avere identità, idee, valori, principi e così via; tutto questo ridurre l’uomo a consumatore consumato, va in direzione esattamente contraria a quella della cultura, non per colpa degli strumenti ma di chi li adopera – e considerando anche che non c’è nessuno strumento puramente neutro: se non lo usi tu per il bene, immediatamente ti usa per il male, ovvero ti usi tu per il male attraverso di esso.

 

Il cadavere di cui parliamo non è cosa da poco, non è facile rimuoverlo, anzi come l’Amedeo di Ionesco cresce da morto e ti toglie spazio, tempo e vita.

 

Ma poiché senza cultura l’uomo non può esistere (e non c’è bisogno di dimostrarlo), sperare in un futuro a partire da questo presente tragico non è né un’illusione né un’ostinazione, è una necessità e perciò un dovere, come respirare, nutrirsi e mantenersi in vita.

 

L’idea che si può vivere “comunque” sopravvivendo tra l’ultimo talk show e l’ultimo Grande fratello è anch’essa un’idea “culturale”, ma la peggiore, la più insensata, e produce droghe violenze suicidi, chiarissime sue bandiere.

Bisogna pensare. Parlarsi (non monologarsi). Leggere pochissime cose che meritano. Riflettere. Contemplare. Sapersene andare da dove si è solo numero. Muoversi senza fretta. Persuadersi che, poiché si può morire tra cinque minuti, ciò che conta è sempre fuori dalla logica dei calcoli, quali che siano. Non essere ricattabili dalla paura della solitudine o di morire o di non essere stimati da questo e da quello. Cercare il bello: ce n’è più su una foglia o in un riflesso di una pozzanghera che in tutte le passerelle mediatiche, mostre e mostri che non valgono una goccia polverosa di pioggia. “Patire” il bello, ovvero purificarsi alla sua luce, al suo fuoco: è difficile trovarlo, difficile nutrirsene, difficile comunicarlo; ma proprio perciò la strada è giusta, impegna tutta la vita.

 

E non ho parlato di Verità, parola enormemente problematica che può suggerirci, a causa delle nostre debolezze, tanti equivoci. E non ho parlato di Dio, parola che può fornire alibi sia a credenti che a non credenti.

Ho parlato della vita-che-ci-manca, di questo insopportabile mix di banalità-mediocrità-volgarità che è l’aria “culturale” che respiriamo, non certo quella della natura, pur inquinata, ma vitale.

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