Sempre tra la vita e la morte

Padre Renato Chiera è un sacerdote italiano, della diocesi di Mondovì, precisa. Nel 1978, proprio quando doveva diventare professore di filosofia, gli venne chiesto di partire per un paese lontano che lui non aveva mai visto: il Brasile. Lui lasciò tutto e disse di sì. Da allora vive alla periferia di Rio de Janeiro, nella Baixada fluminense, un immenso quartiere con 7 milioni di abitanti, provenienti da tutto il Paese alla ricerca di migliori condizioni di vita. Che non hanno ancora trovato. La Baixada è il quartiere con il più alto numero di meniños de rua del Brasile, quello con più suicidi e omicidi tra i bambini, e quello in cui l’età media dei ragazzi di strada si è abbassata di più negli ultimi anni: da undici a quattro anni. Padre Renato, cosa ha voluto dire per lei arrivare in Sud America e incontrare la Baixada? Appena arrivato ho trovato da una parte un popolo capace di dare un calore umano tutto particolare, dall’altra una realtà molto dura: la povertà, anzi la miseria e la violenza. Io che non avevo mai visto una persona assassinata, la prima sera che ero in Brasile ne ho viste due. La seconda sera, altrettante. Ho capito che se volevo veramente vivere lì senza fare il turista, dovevo scoprire il valore del dolore. All’inizio me ne volevo andare: ero circondato sempre e solo da violenza, da morte e da sofferenza. Che cosa l’ha fatta invece rimanere? Ho guardato la Baixada, ed è stato per me come vedermi davanti agli occhi un grande Cristo abbandonato da tutti, anche da Dio. Ho voluto, diciamo così, sposare quella periferia. Direi che mi sono sposato con la Baixada fluminense, con Gesù crocifisso, in quella realtà. Ritorniamo ai primi tempi nella Baixada… Ricordo che una sera, arrivando a casa, trovai nel garage un ra- gazzo nero. Credevo che volesse rapinarmi; invece mi disse solo che cercava un posto dove rifugiarsi, perché gli squadroni della morte lo stavano inseguendo. Non aveva genitori, viveva rubando e drogandosi come i tantissimi altri meniños de rua come lui; lo tenni con me. Tuttavia, qualche tempo dopo, lo uccisero con un colpo di pistola alla testa: il segno degli squadroni della morte.Mi ricordo pure di un ragazzino, in piazza. Era inverno e faceva freddo; ma lo vidi che si toglieva la maglietta per metterla al suo cane che abbracciò, per scaldarsi un po’ anche lui. Quando mi vide scappò. Poi però mi venne a cercare, e successivamente tornò ancora, insieme ad un altro bambino. Da lì cominciai ad ospitare dei ragazzi di strada, ed è poi iniziata la mia esperienza con il progetto Casa do menor. Una casa di accoglienza per minori? È oggi una tra le maggiori organizzazioni brasiliane che lavora per il sociale. È sorta per togliere i ragazzi dalla strada e dare loro un futuro. Attualmente segue più di 1300 bambini dei sobborghi di Rio de Janeiro. Il primissimo passo fatto? Alcuni ragazzi dormivano sulla soglia di casa mia: per entrare dovevo passare sui loro corpi. Ricordo una ragazzina che mi chiese di dormire nella cuccia del cane. Mi disse: Io sono un cane, padre. Cominciai a farli dormire da me: facevano festa, ma anche rubavano tutto, facevano pipì in tutte le stanze. La gente diceva che ero matto. Ma lei non si è fermato… Avevo provato all’inizio a farli dormire nel mio furgoncino, ma misi a loro disposizione il mio garage: i ragazzi lo sistemarono e vollero chiamarlo Casa do menor, perché sentivano quel posto come una casa. Da quel garage ha preso il nome l’associazione. Poi sono stato trasferito in un’altra parrocchia, ma sempre della Baixada, dove la realtà era ancora più impressionante. Lì in meno di un mese era- no stati uccisi 36 ragazzi, e altri 40 erano ufficialmente ricercati dai justiceiros. Molti erano i giovani parrocchiani che avevano amici e conoscenti tra i ragazzi uccisi. E che ci dice sui famigerati squadroni della morte? I justiceiros dicono apertamente che l’unico modo per combattere il drammatico tasso di criminalità che si registra nelle periferie, un fatto peraltro vero, sia quello di uccidere i meniños de rua, che sono i primi e diretti responsabili della delinquenza. Certe volte sono i commercianti che li pagano, per mantenere sicure le strade. Questi ragazzi sono effettivamente pericolosi; ma esiste un modo migliore del carcere e dell’assassinio sistematico per curare il crimine sociale. Occorre dare ai ragazzi l’opportunità di costruirsi un futuro, dato che loro si vedono condannati a vivere nella strada per tutta la vita. Una volta gli squadroni della morte mi vedevano come un nemico, perché mentre loro uccidevano i ragazzi, io li tenevo al riparo. Invece ora siamo diventati alleati. Il loro capo recentemente mi ha detto: Non uccido più ragazzi, li mando da te. E oggi? Ogni anno vengono uccise in Brasile circa 50 mila persone, la maggior parte ha dai 14 ai 24 anni. In Europa non potete immaginare quello che sta succedendo a Rio: c’è il cosiddetto Esercito Mirin composto da 40 mila ragazzi dagli 8 ai 15 anni che vivono senza nessun valore, che entrano nel giro del narcotraffico perché vi trovano un mondo in cui, a differenza della strada, si sentono persone importanti ed in qualche modo rispettabili. Uccidono e vengono uccisi, ogni giorno: sono ragazzi distrutti. Vivono nei posti più poveri, nelle favelas, hanno un vuoto interiore enorme, ed il narcotraffico fa leva proprio su questo: li adotta e li assolda per i propri affari. Dà loro un mondo di soldi facili, di sesso, di droga, finché non vengono uccisi, perché c’è una rotazione tremenda. Anche lei, padre, da quando si occupa dei ragazzi di strada ha corso più volte il rischio di venire ucciso… Nel 1978 mi minacciavano di morte perché mi accusavano di essere comunista. Successivamente perché ero dalla parte dei poveri. Ed ora non me lo chiedo nemmeno più perché mi vogliono uccidere. Lo scorso 11 marzo mi hanno telefonato, e con un gergo molto duro mi hanno detto che mi avrebbero letteralmente spaccato. La minaccia di morte è per me un Gesù che devo amare. Stiamo vivendo questa situazione tutti insieme, nella Casa do menor, e questo trasforma tutto: mi fa sentire tranquillo, libero. Credo che vogliano uccidermi perché so di poliziotti e di persone in carcere coinvolte nel narcotraffico. Volevano rapirmi servendosi di un ragazzo che mi conosceva: lui si è rifiutato e lo hanno ucciso. Che vuol dire morire? Ci sono vari modi di morire.Venire ucciso con un colpo di pistola potrà sembrare anche in un certo modo eroico, ma è anche relativamente facile. Basta un attimo ed è finita. In dieci anni a Rio sono state uccise 33 mila persone: la nostra gente muore. Più difficile per me è dare la vita tutti i giorni, con questi ragazzi che nessuno vuole, che sono incostanti, che vanno continuamente cercati per le strade. Ci vuole una pazienza infinita, senza aspettarsi mai nulla in cambio. Ecco, è molto più costoso e difficile morire così, per amore degli altri, giorno per giorno. E devo dire che queste ultime minacce sono state per me anche una sorta di grazia, perché mi sono fatto un esame di coscienza per vedere se ero disposto veramente ad accogliere i miei ragazzi fino a dare la vita per loro. E allora ho visto che il mio lavoro è serio. Oggi, dopo 18 anni da quel 1978 in cui padre Renato Chiera arrivò nella Baixada, la zona di padre Renato è diventata uno dei rioni meno violenti della città. Era un inferno.

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