Salviamo le Alpi!

Palma e Giovanni Groaz sono una giovane coppia di alpinisti trentini: lei è la prima guida alpina donna, lui è figlio di una stirpe di guide. Da solo e di nascosto, a dieci anni, è salito sulle cime ghiacciate del Cevedale. Pur non essendo dei professionisti, per decine d’anni hanno percorso vie estreme senza dirlo a nessuno, dalle Alpi allo Yosemite. La loro concezione dell’alpinismo rifugge dalla celebrità: “La nuova frontiera dell’alpinismo è il silenzio. Aprire una via nuova, salire su una cima senza lasciare traccia: né sulla parete, né nella memoria collettiva. Sarebbe bello buttare via guide e relazioni e ripartire da capo. Ogni salita sarebbe così la prima. Tu e la montagna, e nient’altro”. Nelle parole di Giovanni c’è tutta la malinconia per una montagna sempre più carosello e sempre meno palestra dell’anima. Lo conferma il 2° rapporto sullo stato delle Alpi, elaborato dal Cipra, la commissione internazionale sorta per proteggere lo specifico dell’arco alpino. Ecco i rilievi più significativi. Le Alpi, incastonate nella ultracivilizzata Europa, sono il più sensibile sistema mondiale di preallarme sulle mutazioni climatiche e sulle loro conseguenze. Strade, ferrovie, elettrodotti, metanodotti, oleodotti solcano le Alpi senza pagare un dazio alle conseguenze ambientali prodotte. L’agricoltura di montagna segna il passo e cerca una via d’uscita nelle produzioni di qualità. Intanto, anno dopo anno, le Alpi stanno trasformandosi in un gigantesco parco di divertimento usa e getta. La via d’uscita è in quei concetti, che cominciano a farsi spazio, di “utilizzazione contenuta” dell’area alpina, e di valorizzazione del patrimonio di biodiversità, oltre che di lingue e di culture. Mentre decine di milioni di persone, in queste settimane, si rifanno gli occhi con lo spettacolo delle sue vette e assaporano i gusti genuini dei prodotti di montagna, c’è dunque qualcuno che si interroga sulla vita delle Alpi. Chissà se, sul futuro di queste montagne, anche il naturalista De Saussure che promosse, nel 1786, la prima salita al Monte Bianco si era fatto qualche domanda? Erano gli anni in cui il pensiero illuminista cominciava a muovere i suoi passi: la fede o la conoscenza scientifica ci possono far conoscere le nostre origini ed il nostro destino? La Bibbia o lo studio dei fossili? Iniziò così l’epopea dell’esplorazione delle catene alpine, fino ad allora dai più solo scrutate per capire se il tempo era propizio alla fienagione. Dopo l’esplorazione venne il tempo delle scalate, della conquista delle vette: quando ogni cima perse la sua verginità, iniziò la ricerca delle vie più ardite da aprire, il tempo del rischio ricercato fine a se stesso. Nel frattempo lo sviluppo industriale pretese dalle montagne un tributo in acqua, elettricità e legnami. I racconti di paesaggi incantati e di animali selvatici giunsero fino agli abitanti della pianura, che non vollero perdersi lo spettacolo: iniziava così l’era del turismo montano di massa. Reinhold Messner è uno dei più grandi alpinisti viventi, primo a conquistare tutti i 14 ottomila della terra ed oggi paladino dell’uso eco-compatibile della montagna. Nel suo ultimo libro Salvate le Alpi, afferma che “ormai ridotte a scenario di un culto del corpo e della performance che costituisce una delle poche vie di fuga dell’immaginario cittadino, le Alpi stanno diventando un unico immenso parco del rischio a pagamento” o più semplicemente “il luogo indifferente di un turismo astratto e devastante”. In funzione di questo turismo compaiono ovunque parcheggi, funivie, piste tracciate, sbarramenti contro le valanghe, eccetera. Ed insieme al numero di quelli che egli chiama causticamente “tossicomani del divertimento” aumentano pure gli incidenti. Si gioca a fit for fun – come la chiama Messner -, prestazione per divertirsi, “come se le rocce, le distese di neve e le falde ghiacciate non fossero altro che una impalcatura da scalata. Il paesaggio e la natura circostanti sono percepiti come una scenografia, bella forse a distanza, ma non più compresa nella sfera del tempo libero”. In ogni luogo, oltre al totale dominio della natura, ci si aspetta di trovare i servizi cui si è abituati; e molte attività alpine odierne non sono altro che una forma ricercata di brivido a rischio controllato. Detto in altri termini, accanto alla consapevolezza che la montagna vada salvaguardata, che l’ambiente vada protetto e conservato, il prossimo passo, nel momento in cui si allenta il legame con la natura ed essa è vissuta alla stregua di un apparato fittizio, è quello di dare spazio ad una nuova sensibilità: l’andare sui monti osservare, conoscere, vivere la montagna per quello che essa è, senza far ricadere su di essa le nostre frustrazioni o le aspirazioni sopite. L’andare sui monti dovrebbe rappresentare una possibile e giocosa attività in equilibrio fra mente e corpo, spirito e natura. L’alpinismo come risorsa per risvegliare anche positivi istinti dimenticati e repressi, tuttavia, contempla, come spiega ancora Messner “non soltanto montagne poco accessibili, ma anche individui che non traggano esclusivamente da esso il senso della loro esistenza”. Laddove, insomma, la natura è chiamata a compensare i deficit emozionali della nostra società, l’assalto alla conquista della montagna funge da surrogato di una quotidianità anonima, e la via che sale al monte si rivela una fuga dalla città. “Chi trascina con sé stress, nervosismo e tensioni per trasferirli sulle vette, non troverà mai né tempo, né spazio per l’autorealizzazione” conclude Messner.

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