Rossini al museo

Al Teatro dell'Opera di Roma, un'originale rappresentazione del rossiniano "Viaggio a Reims"
Un momento dello spettacolo (foto: Teatro dell'Opera di Roma)

I registi ne inventano sempre una di nuova. Damiano Michieletto di fantasia ne ha da vendere. Al Teatro dell’Opera di Roma, dove si rappresenta per la prima volta dal 1825 in cui è stato composto, ha fantasticato sul Viaggio a Reims di Rossini. “Cantata scenica”, più che opera in un unico lunghissimo atto, scritta per celebrare l’incoronazione a Reims del re francese Carlo X. La quale in verità arriva solo alla fine, con quell’ironia sottilissima che il Pesarese aveva da sempre, ma che il soggiorno parigino aveva raffinato a tal punto da farla scambiare per bonomia. Sul palcoscenico una marea di personaggi – il fior fiore dei “tipi”rossiniani – che non fan nulla se non aspettare la carrozza per Reims, perennemente in ritardo. Ed allora, poesie, ripicche, amori, buffonerie, insomma il repertorio di Gioachino tra serio e faceto,un po’ come in Cenerentola. Solo che qui è esaltato al massimo grado, visto da un’altezza sorridente e un po’ cinica, inventando il melodramma del melodramma. Quello suo, s’intende: arie, duetti, cavatine, crescendo inarrestabili; e il concertato a 14 voci, un vero monstre musicale, vero cuore dell’opera, più che il sillabato frenetico di Don Profondo (“Medaglie incomparabili”), la citazione gioiosa degli inni nazionali. Gran successo, l’operina in un atto diventata grazie alla musica una operona. Scrittura vocalmente e strumentalmente raffinatissima, ultimo sole di Rossini, moderna, il Viaggio ospita una caterva di personaggi: la poetessa Corinna, la marchesa Melibea e la contessa di Folleville, madama Cortese e il cavalier Belfiore, don Profondo, i l barone Trombonock e cosi via.

Michieletto trasporta l’azione in una galleria – tra tele di Goya Botero Picasso Frida Kahlo e così via -, con una direttrice isterica, un critico bizzoso, un restauratore fanatico, giovani impulsivi e amorazzi, un vescovo con tanto di mitria…,eccetera.

Si corre, si grida, sembra una sorta di musical comico dove c’è anche Rossini. Ed infatti i cantanti sono sottoposti ad un tour de force dinamicissimo per farci divertire,come se la musica di Gioachino, così elegantemente spiritosa, non l o fosse di per sé. E lo spettacolo appare una follia della fantasia, con le Tre Grazie che escono da una colonna vitrea a danzare – spiritoso omaggio a Canova da parte del regista veneto -, i cantanti che si spogliano e si rivestono, ed ovviamente il gran dipinto dell’Incoronazione che attende di essere svelato. All’ironia frizzante e misurata di Rossini, Michieletto risponde con la frenesia, lo spettacolo è televisivamente attraente.

E la musica? Stefano Montanari si sbraccia a chiedere all’orchestra la leggerezza rossiniana (più facile a dirsi che a farsi se non si è in confidenza con Gioachino) e ai cantanti (bravi Nicola Ulivieri, Juan Francisco Gatell, Mariangela Sicilia…) super impegnati come attori la bellezza di Gioachino, ma non è sempre facile, ad esempio controllare grida e inutili “puntature”.

Come prima volta a Roma, è sufficiente. Lo spettacolo è fantasioso. Purtroppo, però i registi talora rischiano di sentirsi più importanti della musica… Ma quella di Rossini è acqua sorgiva e fresca, forse merita più amore e umiltà da parte dei registi e, perché no?, anche dei direttori.

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