Rodotà, giurista poliedrico che guardava al futuro

A pochi giorni dalla sua dipartita, il ricordo di una personalità multiforme che ha saputo pensare in anticipo sul suo tempo
Il giurista Stefano Rodota'. ANSA/CIRO FUSCO

L’omaggio corale riservato a Stefano Rodotà in occasione della sua scomparsa ha confermato il carattere poliedrico della sua personalità. Chi è stato davvero Stefano Rodotà? Un intellettuale, autore di saggi di estrema raffinatezza? Certamente. Un polemista? Sicuramente sì. Un opinionista ricercato e apprezzato dalle migliori testate giornalistiche del nostro Paese? Senza dubbio. Un grande giurista? È evidente: basti pensare ai contributi che ha dato alla costruzione della dottrina giuridica della privacy nel nostro paese. Possiamo aggiungere che è stato tutte queste cose insieme, e che proprio per questo merita tutte le intense commemorazioni che gli sono state dedicate? Sì, lo possiamo fare. Ma nello stesso tempo non possiamo sottrarci a un senso di disagio, se consideriamo come Stefano Rodotà, pur avendo ottenuto prestigiosi riconoscimenti, sia sempre e intenzionalmente stato tenuto ai margini della vita politico-sociale italiana.

Grande giurista, non è mai arrivato alla Corte Costituzionale. Grande bioeticista, non è mai stato chiamato a far parte del Comitato Nazionale per la Bioetica. Avrebbe meritato la nomina a senatore a vita, che è stata invece riservata a personalità a lui non comparabili. È stato un uomo libero, è stato detto, e tutta la sua vita è una dimostrazione che la libertà autentica “si paga”. Ma quello che forse più rileva richiamare alla mente quando si parla di Stefano Rodotà e del contributo di idee che egli ha portato al Paese è probabilmente il carattere obliquo della sua incidenza dottrinale. Non esiste un partito che lo possa annoverare tra i “suoi”, e non esiste una “scuola” (ovviamente non nel senso accademico del termine) che prenda il suo nome.

Tutti coloro che ne hanno commemorato la scomparsa hanno ricordato la sua strenua lotta per i diritti dell’uomo; ma i diritti cui egli ha dedicato soprattutto i libri della sua maturità e della sua vecchiaia sono ben diversi da quelli studiati e difesi da un Norberto Bobbio. Mentre Bobbio studiava i diritti umani radicandoli nel presente, come il frutto maturo della modernità giuridica, non a caso da lui definita l“età dei diritti”, una modernità quindi da consolidare e difendere, Rodotà radicava i diritti nel futuro e li individuava come l’orizzonte ancora inattuato del progresso civile e della dignità dell’uomo, per come egli nel suo intelletto libertario e radicale li intuiva, li auspicava, li preconizzava.

Chi ha amato Rodotà ha sempre sostenuto che egli pensava in anticipo sul tempo in cui gli era stato dato di vivere; chi lo avversava, ma anche chi lo ammirava, ma non ne condivideva le idee, insistevano nel mostrare quanto la sua visione del mondo fosse così lontana dalla sensibilità diffusa, da essere incapace di orientarla. Di qui lo strano effetto che fanno sul lettore le sue opere più rilevanti e in particolare le più tarde, come il saggio “Diritto d’amore” del 2015, che già nel titolo esprime perfettamente la carica di provocatorietà, intelligente e nello stesso tempo mitissima, dell’autore. Si potrebbe dire che Rodotà entra nel dibattito della giuridicizzazione delle diverse forme di rapporto interpersonale e sessuale quando i giochi ormai sono fatti; ma la sua raffinata sapienza giuridica lo induceva a pensare non l’oggi, ma il domani. E solo quando arriverà quel domani, che Rodotà attendeva con la pacata indignazione per il presente che era solito scuoterlo, si potranno fondatamente aprire le riflessioni critiche sul suo pensiero e sulla sua personalità.

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