Ritrovare lo stupore

Roma, marzo. Lo studio di Pupi Avati, è fitto di foto, ricordi, premi. Ma sulla scrivania spicca il ritratto di una signora serena e mite. A cui il regista assomiglia in modo incredibile. È sua madre. Una donna che – comincia a dire con pacatezza bolognese – era un mare di ricordi, aneddoti, dettagli. È da lei, credo, che mi deriva la necessità di raccontare, e attraverso il racconto, probabilmente dire agli altri chi sono. Certo, io uso uno strumento insolito, il cinema, sono un privilegiato, perché non tutti hanno queste condizioni. Però, bisogna averne la predisposizione e soprattutto avere qualcosa da dire. Credo sia per questo che faccio il regista. Il suo ultimo film, La rivincita di Natale, un grande successo, è una storia piuttosto amara sul mondo d’oggi. Il film ha un messaggio interno abbastanza evidente, cioè la desacralizzazione dell’esistenza in cui stiamo vivendo. Non per nulla si svolge la notte di Natale, in una cappella sconsacrata. È un tema che mi è caro, questo orgoglio laico, questa ragione che si è venuta a sostituire a tutto, producendo un inaridimento del contesto sociale. Mentre io penso che l’essere umano abbia delle possibilità che lo portano a vivere in un altrove, ad immaginare qualcosa che vada oltre la realtà che vede. Oggi invece stiamo educando i nostri figli ad una limitatezza che è un inaridimento, più verso chiusure che verso aperture. Il film racconta questi ultimi diciotto anni dal primo del 1986, di cui è il sequel: i cinque personaggi, che già allora rappresentavano la parte più scadente della società, non hanno fatto altro che adeguarsi ai tempi. Del resto vedo che oggi c’è un decadimento anche nelle istituzioni centrali, la famiglia ad esempio. Io sono padre e nonno, che modello diamo ai ragazzini? Questi magari scelgono un ospite della casa del Grande Fratello. Anche la chiesa, nella corsa affannosa che fa per esserci, credo abbia un po’ abdicato alla sua missione spirituale per rivolgersi al sociale, il che va benissimo, perché la società ha bisogno di terapeuti. Però noto un calo di spiritualità, per non parlare della scuola, con insegnanti senza vocazione… La società si va facendo più tremenda, più chiusa, con una religiosità che si traduce talora in forme di fondamentalismo. Io ho la sensazione della presenza Ritrovare lo stupore Ritrovare lo stupore del male, sono sempre stato convinto che è un’entità precisa. La sua più grande invenzione è stata quella di convincere l’uomo che no n esisteva, e così sta guadagnando molti punti. Nel film precedente, però, Il cuore altrove, un racconto tenero, c’era almeno una speranza. Era una storia più rassicurante, ambientata nel 1920 e non oggi, anche se poi è piaciuto ai ragazzi di oggi. Secondo me è un film da ricandidare come modello al quale ispirarsi: l’ingenuità. Io l’ho cercata in parecchi miei lavori, cerco di proporla come dato positivo, perché se le persone fossero restituite un po’ allo stupore, all’incanto, sarebbero migliori. Riuscirebbero meglio ad apprezzare tutto, tutta la grazia di Dio dalla quale siamo circondati e che non riusciamo più a considerare e nemmeno a goderne. In diverse sue opere – ad esempio Storie di ragazze e ragazzi – ci sono quelle che sono state definite le stanze delle memorie, cioè il suo passato.Tuttora ben presente in lei. Hanno molto influito su di me la cultura contadina da cui provengo, il paesaggio collinare intorno a Bologna dove ho passato i miei primi cinque – fondamentali – anni della vita, la religiosità di mia madre, preconciliare certo, in cui c’era un commisto di superstizione, però mi ha nutrito e non l’ho mai rinnegata, come invece è capitato ad alcuni miei coetanei che hanno tagliato le radici. Io sono estremamente riconoscente verso le mie origini, sono rimasto lo stesso. Nei suoi lavori c’è dunque un ondeggiare fra ricordo, analisi del male – penso ai film gotici – e poi l’amore per la musica. Il jazz, in particolare, come in Bix. La musica è stato l’amore della mia adolescenza e della mia giovinezza, il sogno che ho perseguito nell’illusione di diventare un grande musicista: per poi scoprire di non averne il talento, e si è trasformato in una sofferenza enorme. Ho sofferto moltissimo di non esser potuto diventare un musicista, ne soffro oggi ancora. Però il talento è molto importante e allora ho ripiegato sul cinema che invece mi ha dato più soddisfazione: ma ancora oggi uso la musica nei miei film, la racconto. Tant’è vero che sto lavorando ad un film, Quando arrivano le ragazze?, ambientato proprio nel mondo della musica. La quale ha fatto di tutto per estromettermi, ma non ce l’ha fatta (sorride, ndr). In trent’anni di carriera, momenti magnifici si sono alternati ad altri duri, come l’insuccesso de I cavalieri che fecero l’impresa nel 2001. È vero che dopo non pensava di fare più film? È vero, perché era un lavoro che, contrariamente a quanto avevamo fatto, ci aveva impegnato a livello fisico,creativo, economico così tanto da stremarci. Ma eravamo convinti di un buon risultato e quando non c’è stato-cosa che non sapevamo spiegarci – ho pensato: forse è ora che smetto. Poi è andata bene con Il cuore altrove, ma la risposta a questo fallimento non l’ho ancora trovata. Forse bisogna rassegnarsi al fatto che uno non è capito. Come in altri momenti difficili, mi ha molto aiutato mio fratello Antonio. Anche se ci sono tra noi otto anni di differenza – lui è del ’46, io del ’38 -, crescendo siamo diventati coetanei. Antonio svolge un ruolo fondamentale nella nostra attività a livello organizzativo e finanziario, progettuale e creativo. È l’unica persona di cui mi fidi veramente: senza di lui non avrei fatto nulla. Da un anno e mezzo è presidente di Cinecittà Holding. È riuscito a realizzare qualche suo progetto? Beh, diversi. Il più interessante è stato il portare il nostro cinema in cento città al di sotto dei 150 mila abitanti, dove il cinema italiano non transitava mai, mediante un accordo generale con gli esercenti di queste sale. Perciò, ora avremo per lo meno 140 giorni all’anno di prodotti nazionali. Vorremmo infatti promuovere il nostro cinema, ma non è facile, se penso che poco più del dieci per cento dei giovani autori riescono a fare il secondo film. Oggi è molto duro attivare una carriera cinematografica con continuità, perché il cinema è un mestiere difficile, in Italia non ha aiuti e allora un film diventa frutto di circostanze, felici se va bene, infauste se va male. Lei è considerato un autore cristiano. Quanto conta Pupi Avati con questo nella sua vita e nel suo lavoro? La mia educazione cristiana conta sempre di più. Già quando ho iniziato questo mestiere, avvertivo la responsabilità nei riguardi dello strumento che mi era stato concesso; ora sento che ogni film deve avere un suo senso anche dal punto di vista economico, per cui se un film non serve a niente e a nessuno, perché dobbiamo investire tanti soldi? Ma l’educazione ricevuta mi ha portato ad una cosa importante: ad aver pena per tutti, ad un’incapacità o a una difficoltà nel giudicare. Più conosci l’essere umano, più diventi anziano, ti rendi conto che le persone apparentemente peggiori, più difficili da perdonare, hanno sempre un qualcosa per cui io non riesco a condannarle totalmente. Non mi sento autorizzato, mentre vedo alcuni che continuamente emettono giudizi sugli altri: è l’unico tipo di essere umano che non non riesco a comprendere, perché io non ne sarei capace. So che anche dietro l’errore più terribile c’è sempre una ragione che forse lo spiega. Un bilancio della sua vita. È soddisfatto? Guardi, fare il regista è un mestiere che si impara in modo faticoso e forse non lo si apprende mai. Devi individuare un racconto, innamorartene, dedicarci un anno a rendere concreto il tuo sogno condividendolo con altri. Un’impresa complessa. Comunque, se la vita è vivere intensamente, il rammarico e la gioia ad alta temperatura, io credo di aver avuto abbastanza. Non ho chiesto di stare al riparo da qualunque rischio, con la bolletta del gas o della luce garantita…( sorride, ndr). Perciò, credo di essere uno dei pochissimi registi che non ha sogni nel cassetto: ho realizzato i film che volevo fare, anche grazie al fatto che con mio fratello si lavora insieme: insomma, c’è un’alchimia che ci permette di dar vita ai nostri sogni.

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