Riscoprire il Vignola

Èstata tutto sommato una rimpatriata questa mia scappata a Vignola per visitare la mostra dedicata a Jacopo Barozzi. Non ci sono nato, ma ci ho passato l’infanzia in questa ridente cittadina dove ho messo le prime radici, frequentato la scuola e la parrocchia. Luogo delle mie prime relazioni umane, dei miei primi sogni, delle mie giovanili fantasie. Negli anni delle prime ingenue vanterie, mi piaceva rendere edotte quante più persone potevo che nel mio paese erano nati personaggi illustri, come Ludovico Antonio Muratori, insigne storico, e Jacopo Barozzi, grande, anzi grandissimo architetto, che universalmente veniva denominato il Vignola. Al primo era dedicata la scuola che frequentavo, ma dei suoi trattati sul medioevo, che avevo trovato barbosissimi, non riuscivo ad interessarmi più di tanto, mentre del secondo, che stava in cima alle mie predilezioni, non cessavo di ammirare quel poco che era rimasto a Vignola: l’ampia scala a chiocciola nel palazzo Boncompagni, di cui si diceva nessuno avesse ancora capito la segreta struttura. Per me quel luogo, che mio fratellino profanava scendendone arditamente le ampie volute in bicicletta, aveva il fascino del sacro. E spesso mi sono trovato a testa in su, fino a provarne stordimento, preso dal vortice della spirale. Quando la necessità di passare alle scuole superiori mi portò a Bologna, trovai nella città felsinea altre eancor più degne testimonianze del grande architetto. Ogni mattina, andando a scuola compivo una piccola deviazione per vedere Palazzo Bocchi che, con quel suo vistoso bugnato, mi intrigava. Cominciavo ad entrare in confidenza con le regole non scritte di una logica strutturale ed estetica antiche quanto l’arte del costruire, ma qui a me per la prima volta evidenti. Esse insegnano a disporre i conci e attribuire una gerarchia ad ogni elemento di cui l’architettura si compone. Anche la grande quinta scenografica del Palazzo dei Banchi con cui il Vignola aveva chiuso e completato piazza Maggiore, raccordando genialmente una congerie di edifici preesistenti, invitava allo studio, come un complesso esercizio di solfeggio. Passarono diversi anni: quelli dell’università. Ormai credevo di saperla lunga in fatto di spazi e di volumi. Mi ero laureato in architettura a Firenze. Gropius, Wright, le Corbousier erano i miei nuovi profeti; e, fra i grandi del passato, in cima ai miei interessi era salito Brunelleschi. Mi ero quasi scordato del Vignola, quando le circostanze della vita mi portarono a trasferirmi a Roma. Era venuto il tempo di scoprire le opere della maturità di Jacopo Barozzi. Qui la competizione era con i capolavori assoluti dei giganti del Rinascimento. Bramante, Sangallo, Michelangelo avevano già espresso tutto. Che altro si poteva dire che non fosse ripetizione e maniera, prima che Bernini e Borromini imprimessero all’architettura quella svolta radicale che sarà il barocco? Eppure Barozzi trovò ancora uno spazio per sé. E mentre papi e imperatori se lo disputavano per completare fabbriche grandiose che altri non avevanopotuto terminare – è il caso della basilica di San Pietro, che il Vignola ereditò da Michelangelo, dei progetti per San Lorenzo all’Escorial presso Madrid, per Carlo V – cardinali, principi, ben cinque papi e grandi famiglie, come i Farnese, commissionavano al Vignola ville e palazzi. Francesco lo tenne al suo servizio in Francia a Fontainebleau per due anni. Per Ottavio Farnese e Margherita d’Austria, in fine, iniziò la grandiosa residenza piacentina che resterà incompiuta. Allo stesso tempo, ordini religiosi emergenti, come gesuiti, che imprimevano la propria impronta al rifiorire della chiesa dopo il concilio di Trento, chiedevano di interpretarne le nuove esigenze negli edifici sacri. La Villa Farnese a Caprarola voluta dal cardinale Alessandro e Villa Giulia a Roma, costruita per papa Giulio III sono due capolavori assoluti e diversi nel genere delle dimore principesche di campagna. La prima troneggia sulla valle come una fortezza. Di questa ha conservato i bastioni. Li sovrasta un possente edificio pentagonale, forato da un cortile circolare. La scala è ancora una volta elicoidale, alla maniera del tempo. Superba. La seconda è villa del suburbio, eretta per il riposo di Giulio III. Una costruzione che, anziché imporsi, pare voglia nascondersi dentro la valle, e qui giocare con gli spazi chiusi di un giardino all’italiana e di un ninfeo, tanto modesti di proporzioni, quanto preziosi. Lo si direbbe un luogo della musica che vi scandisce i ritmi e scioglie un canto in forme spaziali. Per i gesuiti, invece, il Vignola progetta e fa costruire la chiesa del Gesù, proponendo per la prima volta quel modello a croce latina e con una sola navata che, da allora, avrebbe costituito il canone privilegiato per l’architettura sacra. Oggi, a furia di ritrovarcele davanti, queste chiese paiono tutte uguali. Ma qui, nel prototipo, nulla è lasciato al caso. Ciò che appare per la prima volta, può ben dirsi un evento. Ricoperta, come la vediamo oggi, dalle superfetazioni barocche, stentiamo a ritrovare la sobrietà essenziale del progetto, quale invece si riconosce nei disegni originali. Ma non è il Gesù la sola chiesa importante costruita dal Vignola a Roma e nel Lazio: Sant’Andrea in via Flaminia e Sant’Anna dei Palafrenieri, la prima chiesa ovale di Roma, saranno a loro volta prototipi di infinite rielaborazioni. È l’ispirazione che ritorna, dove possibile, come nelle cupole schiacciate, ai modelli classici così a lungo studiati. Ne sono testimonianza le due pubblicazioni teoriche riguardanti gli ordini e la prospettiva che resteranno fondamentali per almeno tre secoli e saranno tradotte in tutte le lingue. Queste opere, comprese alcune minori di cui non abbiamo parlato, figurano nella rassegna vignolese, realizzata grazie alla Fondazione della locale Cassa di Risparmio, e offrono un quadro finalmentecompleto del grande lavoro che Jacopo Barozzi compì nell’arco della sua non breve vita (1507-1573). Oltre alle riproduzioni fotografiche di ciò che è rimasto – fortunatamente ancora in buono stato – anche disegni preparatori e molti progetti che rendono ragione delle intenzionalità dell’autore, talvolta tradite da costrizioni esterne. E le tavole autografe della “Regola dei cinque ordini” (1562) e de “Le due regole della prospettiva pratica” (1583). Il tutto nella cornice veramente degna del palazzo Contrari-Boncompagni (per noi era e resta semplicemente il Palazzo Barozzi) che è pur sempre a lui attribuito e che per certo sorge sul posto dove era la sua casa natale. Un bel ritorno a casa, insomma, per Jacopo e per me. Giuseppe Garagnani Jacopo Barozzi da Vignola: la vita e le opere. Vignola, Palazzo Contrari-Boncompagni, fino al 7/7. Notevole il volume monografico “Il Vignola” edito da Electa, dal quale sono state tratte le illustrazioni qui riportate.

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