Referendum, dal voto un invito

Mentre gli occhi concentrati di Totti inquadravano lo specchio della porta, che un attimo dopo sarebbe stata violata e ci avrebbe regalato il quarto di finale, scorrevano sul monitor del computer le percentuali nazionali e regionali di questa ennesima consultazione elettorale: 53,7 per cento degli italiani hanno votato, il 61 per il no, il 39 per cento per il sì. Potremo chiamare anche questa una vittoria nazionale? È pur vero che il quorum del 50 per cento non era necessario, ma dopo 13 anni e 5 consultazioni referendarie fallite per non aver raggiunto il quorum, colpisce, per il suo significato politico, questa maggioranza di italiani che hanno approfittato della consultazione per poter dire la loro. Il quesito: Approvate la legge costituzionale concernente ‘modifiche alla parte II della Costituzione’ approvata dal parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005? è stato preso sul serio, mi sembra di poter affermare, sia da chi ha detto sì, come da chi ha detto no. Nonostante il tentativo da parte di qualche esponente dell’opposizione di allungare l’ombra delle elezioni politiche su questa ennesima chiamata alle urne, i risultati parlano chiaro: non era un test sul governo e non è stato vissuto come tale. I cittadini, nonostante la complicazione di variegate materie assemblate nella domanda – dal numero dei parlamentari alle competenze delle regioni, dai poteri del premier alla Corte costituzionale – e nonostante una campagna a tratti scorretta, hanno voluto, almeno uno su due, dare, con la loro partecipazione, il via ad una stagione di riforme, non più incerta ed ondivaga, fatta di parole d’ordine, ma di sostanza. Quel 60 per cento di no, combinato con l’alta affluenza ma anche con la vittoria del sì in Lombardia ed in Veneto (un sì temperato da una maggioranza di no a Milano e a Venezia), non sembra debba essere interpretato come uno stop ad un qualunque cambiamento, ciò che appare è un deciso no al prevalere di logiche di consenso politico su un progetto compiuto di necessarie riforme istituzionali. È quindi un no da estendere non solo alla riforma sottoposta al quesito dell’ultimo week-end di giugno, ma anche al metodo con cui si arrivò alla riforma costituzionale del Titolo quinto (Le regioni, le province, i comuni) del 2001, frutto di una altrettanto risicata maggioranza, quella volta di sinistra, e che, in questo primo periodo di applicazione, ha già mostrato la corda per i numerosi conflitti di competenza sorti tra Stato e regioni. Ma il palazzo come reagirà a questo esito? Già nelle prime battute di commento sembra di scorgere, in tutti i partiti, persone decise a mettere a frutto questa nuova opportunità. La Lega, principale sostenitrice della riforma del 2005, lancia attraverso il suo leader una positiva apertura per un nuovo lavoro di ricerca in grado di rispondere al desiderio di protagonismo democratico delle regioni del Nord. Ora la palla passa al centro-sinistra! ha commentato a caldo D’Onofrio, dell’Udc, che, pur protagonista di una decisa campagna elettorale in difesa della legge, non ha mai abbandonato una ricerca di apertura. Gli ha fatto eco Alemanno, di An, che ha aggiunto: Vediamo cosa ci verrà proposto: l’onere di proporre un piano di lavoro e un metodo è ora in mano all’attuale maggioranza. Interrogo, quindi, Prodi su quale sia la sua risposta e la lettura conclusiva di questo risultato: Gli italiani non ci hanno dato un’indicazione di chiusura su un problema, ma un invito sereno. La Costituzione è il nostro prezioso tesoro, un bene comune che appartiene a tutto il Paese: per essere adeguata ai bisogni attuali della gente esige un lavoro da compiere insieme. Non occorre stravolgerla, occorrerà modificare alcuni singoli punti: abbiamo già sperimentato, sia noi che la Casa delle libertà, i risultati inefficaci di un lavoro di parte. Dagli italiani oggi ci viene un grande invito che ci proietta al dialogo per il futuro!. L’augurio è dunque quello di non dover più utilizzare il referendum di fronte alla prossima modifica: questo sarebbe il segno di un avvenuto dialogo reale, di un coinvolgimento evidente delle varie culture democratiche che arricchiscono questo nostro Paese e che solo insieme lo possono rendere adeguato alle aspettative. Sarebbe il segno che le modifiche non sono nate da calcoli di piccolo cabotaggio, ma da un programma, da una visione. Due suggerimenti, infine: introdurre nella Carta costituzionale la nostra appartenenza al progetto della casa comune europea, fondata su una scelta di pace e di comunione; trovare il modo di coinvolgere stabilmente ed efficacemente la società civile, nelle sue varie articolazioni, dentro le dinamiche democratiche della nostra Costituzione.

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