Questi nostri sconcertanti figli

Era un giorno speciale, quello che Elena e Augusto si preparavano a festeggiare: venticinque anni prima avevano coronato il loro sogno d’amore, superando l’opposizione delle rispettive famiglie, dovuta soprattutto alla differenza d’età. Da quella unione erano nati tre figli, causa di tante gioie e di altrettanti dolori: come quelli per la loro primogenita Cristiana, già sposata civilmente ad un giovane da cui aveva avuto una bambina, ma ora in procinto di separarsene… Gioie speciali erano venute loro anche da un ideale evangelico – quello dei Focolari – abbracciato in un momento tragico per Elena, e senza il quale non avrebbero saputo come affrontare l’inanellarsi, nel tempo, di altre situazioni critiche. Ne erano aiutati, fra l’altro, a sorvolare su quelle diversità di carattere che all’inizio del loro matrimonio avevano creato non pochi problemi tra un lui con tendenza alla depressione e una lei estroversa e vivace: “il freno e l’acceleratore”, come li chiamavano. Ma ogni preoccupazione era per il momento accantonata: quello doveva essere un giorno lieto, da festeggiare assieme a parenti e amici. Al suono del citofono, Elena andò a rispondere. “Cerco il signor Simone Ricciardi”. Simone era il loro secondogenito di diciassette anni. “Sono un inviato del tribunale – continuò quella voce -. Deve presentarsi tra una settimana per il processo”. A Elena balzò il cuore in gola e trafelata scese le scale del palazzo. L’intera vicenda di quel ragazzo altruista sì ma incauto, che aveva amicizie discutibili nel quartiere, le tornò presente: dalla scoperta fortuita di sostanze stupefacenti in casa, al drammatico confronto con lui, alla disperazione del padre, alla decisione estrema – da parte della madre – di denunciare il figlio, pur di strapparlo a quel giro. Il ragazzo, spaventato, s’era rimesso in sesto, riprendendo con i suoi un rapporto meno conflittuale. Intanto era passato un anno, e chi più ci pensava all’annunciato processo? Al portone, Elena si vide presentare un foglio che Simone doveva firmare. Ma il ragazzo in quel momento non era in casa. “Lo lasci a me, che sono la madre. Glielo farò firmare quando rientra”. E alle obiezioni dell’inviato del tribunale: “Scusi, ma stiamo andando in chiesa per celebrare le nostre nozze d’argento. Non ci sciupi questa festa”. Il suo tono accorato le ottenne quel foglio, che portò con sé alla funzione: un segreto fra lei e Gesù, nella fiducia che lui avrebbe sistemato tutto. Solo così, alla messa e al successivo rinfresco, riuscì a mantenere il suo sorriso e a dimenticarsi per amore degli altri. Il giorno del processo, arrivando con Simone in tribunale, Elena rimase sconcertata da quell’ambiente caotico: gente che andava e veniva, avvocati che arringavano, imputati e testimoni che rispondevano, senza che nessuno facesse caso a loro. Passò ad un certo punto – triste scena – un giovane ammanettato fra due carabinieri. Simone sussultò: aveva riconosciuto uno dei suoi amici del quartiere. Lui che non s’era trattenuto dal rinfacciare alla madre di averlo trascinato in giudizio, ora si stringeva lei come a chiederle protezione, a rassicurarla a sua volta. Quando fu il loro turno, l’imprevedibile: contrariamente a quanto le aveva assicurato l’avvocato, Elena venne chiamata al banco dei testimoni. Le toccò quindi, dopo aver giurato sulla Bibbia (e nel farlo, un’intima richiesta di aiuto), rispondere alle domande in quell’aula dispersiva nella quale però via via si ristabiliva il silenzio. Faceva effetto quella madre che si dichiarava, assieme all’altro genitore, pronta a ridar fiducia al figlio da lei denunciato; e che al tempo stesso invocava la comprensione dei giudici perché lui potesse sperare in un futuro. Parlò per circa un’ora con passione, Elena, catalizzando l’attenzione dei presenti. E in maniera così convincente che Simone se ne uscì assolto con una formula particolare, che lasciava la sua fedina penale assolutamente pulita. Soltanto in seguito, quando quell’incubo apparteneva ormai al passato, il ragazzo avrebbe capito il gesto della madre. Del resto lo stesso Augusto non aveva avuto bisogno di tempo per “digerire” un gesto che là per là aveva giudicato un colpo di testa della moglie? Quel venerdì, Simone tornò dal suo lavoro di rappresentante in prova con un tremendo mal di testa e, sintomo ancora più allarmante, con un calo pauroso della vista. Ricoverato d’urgenza al pronto soccorso, dopo gli accertamenti del caso, risultò affetto da una rara forma di malattia agli occhi. Nei mesi successivi, ormai disperando – per la quasi totale cecità – di poter tornare a lavorare, il ragazzo cadde in una cupa depressione. Stringeva il cuore, ai genitori, vederlo trascorrere interminabili ore del giorno sul divano, a far niente. Un’ altra fonte di ansia per loro era Cristiana. Sciolto ormai il legame precedente, cercava di rifarsi una vita mantenendo però le distanze con la famiglia d’origine: assorbita totalmente dal lavoro per il quale nutriva una vera passione (era restauratrice), mentre la piccola Tiziana si può dire cresceva a casa dei nonni. Fu perciò con sorpresa che una sera Elena si sentì chiamare dalla figlia al telefono. Il tono era serio: “Mamma, ti devo parlare…”. Più tardi, si ritrovavano a tu per tu in una appartata sala da tè. “Mamma, tu sei forte, vero?”. “Beh, ne ho passate tante…” tentò di scherzare Elena. “Sai – riprese l’altra -, sto aspettando un bambino. I miei colleghi mi vanno dicendo: Cristiana, un altro figlio ti rovinerà la carriera, pensa a ciò che fai! Ma io ho deciso di portare avanti questa gravidanza. Così ieri mattina, invece di recarmi in ospedale per abortire, sono corsa dalla Madonna del Divino Amore, dove tu mi portavi da bambina, per domandarle cosa fare. Ho alzato gli occhi e in quel momento, sul dipinto, ho visto come in sovraimpressione il tuo volto, mamma. Era come se Maria mi dicesse: Va’ da tua madre, fatti aiutare da lei. Ecco perché sono qui”. Elena ammutolì per la commozione: era proprio sua figlia, che da tempo sembrava escludere Dio e la chiesa dalla sua vita, a parlarle così? Un forte abbraccio suggellò quella scelta per la vita. Poi, quasi in punta di piedi, Elena azzardò: “Se vuoi, mi farebbe piacere saperne di più. Dimmi, chi è il padre?”. “Mamma, sarà una sorpresa ancora più grande per te e per papà: questo nipotino nascerà… cioccolatino! Suo padre è africano. Comunque con lui sono stata chiara: se non vorrà riconoscerlo, libero di andarsene!”. Ed Elena a rassicurarla. Per lei non contava il colore della pelle: sentiva già di volergli lo stesso bene che a Tiziana. Col tempo si venne a sapere tutta la vicenda: il nuovo compagno di Cristiana, Amadou, aveva già una moglie e un figlio nel Mali, quando si era legato a lei. Nessuno dei due, probabilmente, aveva previsto gli sviluppi di quell’avventura. Finché quella gravidanza tenacemente portata avanti aveva messo il giovane africano davanti ad una scelta. E aveva deciso di rimanere. Un rapporto con lui tutto da conquistare, da parte dei genitori di Cristiana: anche se abituati dal movimento a spaziare sul mondo intero, ora dovevano fare i conti con un’Africa meno teorica e più reale, che si ritrovavano a casa propria. Cristiana: una instabilità, unairrequietezza indizio di una ricerca spirituale che l’avrebbe portata fin tra i monaci tibetani, all’ultimo approdo (ma davvero l’ultimo?) del buddhismo. E poi c’era Maria Chiara, nata nel periodo più felice per i coniugi Ricciardi, quello in cui percorrevano un cammino comune insieme ad altre famiglie. Una figlia così desiderata! (Dopo due parti cesarei, a Elena era stata sconsigliata una terza gravidanza. Ma lei non aveva esitato a sopportare una degenza di sei mesi, pur di portarla avanti). Come i fratelli, nella fase dell’adolescenza, Maria Chiara s’era voluta emancipare dai genitori e dalle loro convinzioni. Eppure quel “marchio” le era rimasto, nonostante la sbandata presa col suo ragazzo, che dopo appena qualche mese di convivenza l’aveva lasciata con un senso di vuoto e di fallimento. E pensare che s’era rivelata proprio lei la più matura, con la sua capacità di ascoltare e consigliare fratello e sorella nei loro momenti critici, di far da tramite tra loro e i genitori. Ora toccava a lei essere aiutata. Fu Simone a riaccompagnarla a casa dai suoi, umiliata e affranta per averli fatti soffrire, e fu Cristiana a consolarla: “Ehi, è solo una sconfitta, questa, ma non è tutta la vita. Puoi sempre ricominciare “. E ricominciò, Maria Chiara, trovando pian piano la forza di costruirsi una propria vita autonoma. Tre fratelli maturati dalle personali vicissitudini, generosi e idealisti, che si volevano un bene dell’anima. E ancora più affiatati dopo che Cristiana riuscì a metter su una s.r.l. nel campo del restauro, offrendo agli altri due la possibilità di un lavoro che, insieme alla recuperata salute, permise a Simone di “risorgere”. Figli tanto amati e a volte sconcertanti. “Scusa il ritardo, c’è stata una piccola emergenza…”. Un medico è sempre scusato, specie se l’appuntamento fissato scivola solo di un quarto d’ora ed è preludio a un impegno abbastanza lungo. È forse questo, in estrema sintesi, il racconto di 27 anni passati in ospedali della Ddr. Giuseppe Di Giacomo, 67 anni oggi, umbro, si presenta con cartelle alla mano e occhi sorridenti dietro le lenti che non nascondono lo sguardo penetrante di chi ha conosciuto nella vita un infinito numero di situazioni difficili a cui ha prestato sollievo. Una storia, la sua, non banale. Negli anni Sessanta, lo sappiamo, per la grande penuria di ospedali e di personale medico dovuto per lo più alla fuga all’estero dei giovani neolaureati, i governi di Ulbricth e poi di Honecker nella Ddr comunista, tolleravano gli ospedali cattolici ed evangelici, concedendo a volte il permesso di soggiorno anche a medici provenienti dal mondo cosiddetto capitalista. Anche il muro innalzato nel ’61 Lubich – alla quale si erano rivolti i vescovi di Dresda e di Berlino – mi chiese se ero disposto a offrire aiuto e competenza negli ospedali dell’Est, assieme ad altri sette medici italiani e a una dottoressa tedesca. Evidentemente non erano motivi di lavoro che determinavano questa decisione, ma soprattutto il desiderio di porgere un aiuto, un sostegno morale, la condivisione di difficoltà, gioie e dolori, con quanti nella Ddr vivevano lo stesso “ideale dell’unità”, e che più volte avevamo incontrato a Berlino ovest, da allora drasticamente separata dal muro”. Era come scegliere volontariamente di andare ad abitare in un grande carcere di 17 milioni di abitanti, i quali avrebbero potuto ottenere il visto di uscire dal paese solo dopo i 65 anni per gli uomini ed i 60 per le donne. “Logicamente – prosegue il racconto – dissi subito di sì, ma dovetti attendere un anno e mezzo a Berlino ovest il permesso di recarmi a lavorare nell’ospedale cattolico di Santa Edvige di Berlino est, la Capitale Cio’ che abbiamo imparato Augusto – «Non so come avremmo fatto senza l’aiuto di una spiritualità comunitaria che ci ha “corazzati” contro le avversità impedendoci di sentirci soli. O saremmo caduti nella disperazione, o saremmo vissuti ripiegati su noi stessi. «E invece no: abbiamo cercato di tenere sempre le porte aperte. Innanzitutto ai figli, cercando di offrire loro un porto sicuro in ogni frangente della vita, senza giudicarli quando ci sembrava che avessero sbagliato. «E aperti anche agli altri, guardando più lontano di noi. Così, spesso, siamo riusciti a portare aiuto e consiglio ad altri genitori che arrancavano sotto il peso di certi fardelli familiari. «Senza l’esperienza fatta con i nostri figli, non saremmo mai stati in grado di capire quei dolori, e anche la nostra apertura ad altre culture sarebbe risultata più teorica che reale». Elena – «Non è semplice costruire l’unità, anche per chi percorre come noi questa via, quando si è tanto diversi. A volte, pur soffrendone, si è costretti a fare certe scelte senza il supporto dell’altro. La salvezza è non giudicarsi, guardarsi ogni volta con occhi nuovi, ricominciare, cercando ciò che unisce.Amare nel presente. «Diversamente, quante volte andrei al lavoro appesantita del carico della famiglia, senza sorriso, scontenta. O viceversa, tornerei a casa carica di quanto raccolto al lavoro, incapace di prender su le situazioni di famiglia. «L’attimo presente così vissuto: mi sembra questa la grazia più grande di tutti questi anni».

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