Quale pace planetaria nel nuovo anno?

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Ricordate? “Le macchine che danno l’abbondanza ci hanno lasciato nel bisogno. La nostra sapienza ci ha resi cinici, l’intelligenza duri e spietati”. E ancora: “Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che d’intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto”. Sembra di averlo letto o ascoltato non più di qualche settimana fa, questo brano. Perfettamente aderente alle necessità di quest’inizio d’anno. A pronunciarlo non fu Adenoid Hynkel, despota di Tomaia, e nemmeno il barbiere ebreo Schulz, somigliantissimo a quel tiranno. Charlie Chaplin si liberò dei due personaggi interpretati e, alla fine de Il grande dittatore, entrò in presa diretta con il pubblico per raccontare la sua visione di pace contro la follia nazista. Dallo scorso 20 dicembre la pellicola è tornata nelle sale cinematografiche italiane in versione integrale. Quanta attualità, purtroppo, in quel manifesto sulla pacifica convivenza, che nell’ottobre 1940 risuonò per la prima volta nei cinema. Non sembra sia passato oltre mezzo secolo: guerre, sistemi totalitari ed egoismi su larga scala susseguitisi nel frattempo non hanno insegnato granché agli inquilini del pianeta. Stiamo infatti vivendo un passaggio tormentato dell’attuale fase storica: incombe la minaccia terroristica, continua l’estenuante braccio di ferro con l’Iraq, si aggravano i drammi in tante nazioni. Anche quelle caratterizzate sino a poco fa da un relativo benessere. È il caso dell’Argentina, paese già esportatore di grano e carne, dove decine di bambini stanno morendo di fame e oltre quattro milioni di piccoli sono in condizioni nutrizionali estremamente critiche. Uno scenario sconcertante, eppure accompagnato dall’indifferenza internazionale. Guerra e fame. Così vedono ilpianeta gli occhi dei bambini. Il rapporto Unicef sull’infanzia, fresco di pubblicazione, non fa sconti al mondo dei grandi. La contabilità che ne risulta è uno schiaffo che non risparmia alcuno: 11 milioni di ragazzini muoiono ogni anno a causa di malattie prevedibili e curabili; 150 milioni sono i denutriti; due milioni quelli uccisi (con sei milioni di feriti e di invalidi) in guerre nell’ultimo decennio, mentre sono oltre 300 mila piccoli arruolati a forza negli eserciti o in formazioni paramilitari. Davanti a questo stato del mondo papa Wojtyla, poco prima di Natale, ha espresso il suo sentimento con parole di straordinaria drammaticità. “Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio, che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dall’agire dell’umanità”. L’indomito pontefice ha ricordato che “il silenzio di Dio è provocato dal rifiuto dell’uomo” e che “tanta insicurezza e tante reazioni sconsiderate hanno la loro origine nell’aver abbandonato Dio”. Siamo intenti ad altro, almeno in Europa. “Qui domina – chiarisce lo storico Giorgio Rumi – una specie di chiusura nel particolare e nell’espansione dei desideri. Siamo periferici di fronte ai grandi eventi dell’umanità, dal Venezuela all’Iraq”. Il peggio, poi, è che in occidente siamo preda di un’amnesia collettiva, tanto da non rendersi conto di quante guerre guerreggiate siano in corso. Lo contabilità supera quota 40, ma dato che in maggioranza sono conflitti interni ad uno stesso paese, spesso si sa ben poco. E di alcuni, niente. Anche la contabilità dei morti non basta per far circolare la notizia. In Congo, ad esempio, la guerra ha fatto tre milioni di morti dal ’97. Eppure, chi ne sa qualcosa? E così pure dallo Sri Lanka al Senegal, dal Nepal all’Angola, tutto viene risucchiato dal buco nero dell’oblio generalizzato. “Alla base del conflitto dimenticato – chiarisce uno studio della Caritas di prossima pubblicazione – c’è il disinteresse delle istituzioni politiche per quell’area del mondo”. L’occidente, come si è visto, è molto più sensibile a episodi di matrice terroristica, come quelli accaduti nella discoteca di Bali o nel teatro di Mosca, dove le vittime sono inermi civili. La nostra presunta sicurezza è stata minata alle fondamenta ed è in ragione di un suo urgente ripristino che la logica della “guerra preventiva” propugnata dal presidente Bush si sta facendo strada – pur con accorti distinguo – nei pronunciamenti delle diplomazie e nelle rifles- sioni della politica internazionale. Lo stato di smarrimento collettivo in cui siamo caduti quasi impedisce di rendersi conto della portata destabilizzante di un principio del genere, ritenuto l’innovazione più rilevante (sob!) nei rapporti sovranazionali dalla fine della seconda guerra mondiale in qua. Non più il ricorso alla deterrenza e alla dissuasione (che improntarono i rapporti Est-Ovest sino alla dissoluzione dell’Urss), né l’adozione del dialogo quale via maestra per la soluzione delle crisi odierne, ma lo spettro dell’uso unilaterale e preventivo della forza militare contro soggetti ritenuti una minaccia per il popolo e gli interessi Usa. Insomma, violenza, distruzione e sangue per prevenire sangue, violenza e distruzione (che non tarderanno ad arrivare come inevitabile reazione). Chi vuol far credere che basti buttare giù Saddam Hussein, personificazione del Male, per far regnare sovrana la pace cade in una incauta semplificazione. Va pure detto a chiare note che non ci possono essere legittime motivazioni per sovvertire i princìpi su cui si fondano i rapporti tra le nazioni. Nessuno stato, pertanto, può farsi giustizia (preventiva) da solo. E nessuno può venir meno agli obblighi della comunità internazionale, cercando – come va facendo l’amministrazione Usa – di sottrarsi alla competenza della Corte penale internazionale, chiamata a pronunciarsi sui “crimini contro l’umanità”. Sono ormai grotteschi quei tribunali di circostanza in cui i vincitori giudicano gli sconfitti. La Corte penale invece esprime in modo significativo la volontà della comunità internazionale di creare un diritto riconosciuto da tutti. In definitiva, il concetto di sicurezza va ridefinito non più in termini unilaterali ma eminentemente comunitari. Ed in questa nuova visione gli obiettivi del disarmo e del controllo della produzione e del commercio delle armi vanno riproposti con urgenza. 800 miliardi di dollari vengono infatti spesi attualmente per gli armamenti, anche da vari paesi in via di sviluppo. Ma quel che è più grave è il fatto che il comparto bellico è diventato negli ultimi anni un settore industriale molto forte, quasi il volano dell’economia mondiale. Per cui l’attesa (da alcuni) guerra all’Iraq avrebbe il vantaggio di avviare ripresa, consumi e occupazione. Che assurdità! Si tratta invece di riconoscere che tra i popoli del pianeta la reciproca interdipendenza non abbraccia solo gli ambiti economici, politici e culturali, ma anche la sfera della sicurezza, che non può più essere prerogativa solo di qualche paese. QUALE NUOVO ORDINE MONDIALE? La pace è soprattutto un bene comune universale. In tempi di globalizzazione, di multilateralismo e di interdipendenza tra gli stati nelle vicende socio-politiche, il papa colloca convinvenza pacifica e bene comune entro un orizzonte mondiale. È, questo, uno dei passaggi iniziali del Messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata della pace 2003, celebrata il primo dell’anno e che ricorda il 40° anniversario dell’enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris. Nell’orizzonte della mondializzazione sono indicate tre questioni rilevanti: l’invito alla comunità internazionale a dare piena realizzazione ad un’autorità pubblica internazionale a servizio dei diritti umani, della libertà e della pace; l’impegno a promuovere tutti i diritti umani fondamentali per tutti gli uomini, riducendo “la forbice tra una serie di nuovi “diritti” promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari tuttora non soddisfatti in situazioni di sottosviluppo”; la necessità di coltivare non solo la consapevolezza dei diritti ma anche dei doveri umani universali. Due provocatori interrogativi animano il cuore del Messaggio. Costatando che il mondo contemporaneo vive in una situazione di grande disordine, il papa si chiede: “Quale tipo di ordine può sostituire questo disordine per vivere in libertà, giustizia e sicurezza? “. Il mondo, pur nel suo disordine – evidenzia Giovanni Paolo II -, si sta organizzando in campo economico, culturale e politico. Allora: “Secondo quali princìpi si stanno sviluppando queste nuove forme di ordine mondiale?”. Il papa non risponde, ma segnala diffuse esigenze. Soprattutto tre: la costituzione di una nuova organizzazione dell’intera famiglia umana, “non intesa come un super-stato globale”, dando risposte adeguate all'”universale domanda di modi democratici nell’esercizio dell’autorità politica nazionale e internazionale, come anche alla richiesta di trasparenza e di credibilità ad ogni livello della vita pubblica “; un sostanzioso legame tra morale e politica, confutando la pretesa che “le politiche internazionali non si collochino in una sorta di “zona franca” in cui la legge morale non avrebbe alcun potere”. Qui il riferimento esplicito è indirizzato alla lotta fratricida in Terra Santa e Medio Oriente, e netto risulta il richiamo: “Finché coloro che occupano posizioni di responsabilità non accetteranno di porre coraggiosamente in questione il loro modo di gestire il potere e di procurare il benessere dei loro popoli, sarà difficile progredire verso la pace”. Il Messaggio infine sottolinea che la costruzione della pace passa attraverso il rispetto della verità e degli impegni presi. Come non pensare ai vertici internazionali, le cui conclusioni brillano per inadempienza? “La gente è tentata di credere sempre meno all’utilità del dialogo”.Ammonisce il testo: “La sofferenza causata dalla povertà risulta drammaticamente accresciuta dal venir meno della fiducia. Il risultato finale è la caduta di ogni speranza”. Pressante l’invito a coltivare un’adeguata cultura e spiritualità della pace. “La pace – ribadisce papa Wojtyla – non è tanto questione di strutture, quanto di persone”. Ogni uomo e donna incrementi nei propri ambienti la pace con significativi gesti personali. Ricordando lo spirito di Assisi, Giovanni Paolo II coinvolge le religioni. Esse sono chiamate a concentrarsi su ciò che è loro proprio, “l’apertura a Dio, l’insegnamento di una fratellanza universale e la promozione di una cultura di solidarietà”. Gesti di pace, dunque, di cui ciascuno può essere artefice. Anche in circostanze estremamente drammatiche. Come riportiamo di seguito.

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