Il prigioniero di Peter Brook

Una storia di colpa ed espiazione, di punizione e liberazione, di odio e amore, resa con i mezzi di una messinscena semplice ed essenziale, secondo le regole dello “spazio vuoto” del grande regista inglese. Al Romaeuropa Festival

Con i suoi classici strumenti poverissimi di teatro, di assoluta semplicità – uno spazio vuoto, dei rami, un tronco d’albero, dei bastoni di legno, delle stoffe, e qualche oggetto – Peter Brook, che ha a cuore la densità umana, ci consegna un’altra riflessione toccante, uno squarcio fulminante sulla vita, sul valore imprescindibile dei sentimenti, sulla ricerca della purificazione, di cosa significhi essere liberi. The prisoner è una parabola che ci istruisce sul significato di parole come punizione, castigo, colpa, amore, odio, espiazione, perdono, redenzione, dandogli profondità di senso.

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«Da qualche parte del mondo un uomo siede da solo fuori da una prigione. Chi è lui e perché è lì? È una scelta o una punizione?». Parte da queste domande lo spettacolo che ha come fulcro la vicenda di un uomo, di nome Mavuso, colpevole di un crimine “indicibile”. L’uomo è prigioniero di se stesso. Non più dentro le sbarre di un carcere, ma fuori di esso, libero, costretto a sostarvi per espiare la colpa di un parricidio. Vi rimarrà finché non sentirà di aver riscattato se stesso creando la sua prigione interiore. Concepito e diretto a 4 mani con la storica collaboratrice artistica Marie-Hélène Estienne, The prisoner attinge dalla biografia dello stesso Brook riferita a due esperienze di conoscenza in due luoghi diversi, Afghanistan e Australia, rielaborate poi nel racconto teatrale e fiabesco: trama che richiama tematiche da tragedia greca quali l’incesto, l’esilio, la giustizia.

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A differenza della visionarietà lussureggiante e della tecnica energica dei corpi espressa un tempo nel leggendario spettacolo epico Mahabharata da una moltitudine di attori, gli odierni 5 interpreti cosmopoliti di identità multirazziale – da sempre hanno provenienze etniche più diverse tutti i suoi attori –, costituiscono una distribuzione minimale, ascetica, mistica. Perché Peter Brook procede ormai da anni verso l’estrema naturalezza dello spirito declinata con quel scarno linguaggio che in modo sintetico arriva dritto al cuore. Bastano gli attori, i loro gesti, i loro sguardi, l’uso che fanno dei materiali che si caricano di simboli immediati, di rimandi a luoghi e a tempi, definendo atmosfere e paesaggi. Come la sequenza di vibrante calibratura visiva, in cui il trascorrere dei giorni e degli anni è segnato silenziosamente dal lento abbassarsi e dall’aumentare della luce, mentre la natura circostante è resa da pochi suoni e rumori emessi dagli stessi attori dietro le quinte. Alcuni tronchi evocano la foresta o il deserto; dei pezzi di legno definiscono a terra una cella; i personaggi bevono in bicchieri invisibili, o danno forma e vita a un topolino. Coerente alla sua teoria dello “spazio vuoto”, Peter Brook lascia agli spettatori costruire ed evocare con la loro immaginazione, trovare risposte alle proprie domande, o semplicemente aprire il cuore e la mente in sintonia con le parole dei personaggi. Insomma, una lezione di teatro artigianale, rigoroso nella sua semplicità, e universale, che solo la sapienza della vita sa distillare. E regalare.

 

“The prisoner”, testo e regia Peter Brook e Marie-Hélène Estienne, luci Philippe Vialatte, scena David Violi e Alice Francois, con Hiran Abeysekera, Hayley Carmichael, Hervé Goffings, Omar Silva, Kalieaswari Srinvasan. Produzione C.I.C.T. Théatre des Bouffes du Nord. A Roma, Teatro Vittoria, per il Romaeuropa Festival, fino al 20 ottobre. In tournée.

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