Poteri, pubblicità e politica. C’è un’altra strada

Dialogo con il professor Stefano Bartolini a proposito del possibile passaggio dalla società del “ben-avere” a quella del “ben-essere”. Niente prediche ma numeri e proposte concrete
Stefano Bartolini

Esiste un’altra strada? Se un professore di economia politica si pone questa domanda sul sito delle lezioni ufficiali della prestigiosa università di Siena, vuol dire che non siamo rimasti del tutto travolti dall’annuncio apocalittico del liberismo: «There is no alternative» (non esiste alternativa). L'analisi di Stefano Bartolini parte sempre da numeri e grafici e mostra che alla crescita del Pil non si associa una crescita corrispondente dei beni relazionali.
 
Pensiamo alla scuola, nota l’economista: chiudere i ragazzi per sei ore in una classe per farne un’area di libera competizione, dove occorre fare tutto in fretta, aiuta la maturazione dei giovani?  O non li consegna, invece, a quel malessere che è il brodo di coltura per quell’alluvione di messaggi commerciali  sull’onda : «La gente felice non consuma». Il volume crescente della vendita di antidepressivi e calmanti è un buon indice per definire quella “felicità” apparente propinata da spot e modelli di consumo.   
L’analisi di Bertolini nel libro Manifesto per la felicità: come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere (Donzelli editore), già recensito da un altro economista, Benedetto Gui, per Cittanuova.it  contiene una raccolta di proposte che entrano del dettaglio possibile delle agende politiche.
 
Abbiamo incontrato Bartolini lo scorso martedì grasso a Loppiano, nel Polo imprenditoriale Lionello dopo un dibattito con Serge Latouche, il travisato o osannato profeta della decrescita e Luigino Bruni, il mite demolitore del fondamento individualista dell’economia.

Professor Bartolini, mercato e gratuità sono estranei tra loro?
 «Gli affari sono affari, “business is business” è vero, ma io devo dire che non sono convinto del fatto che coniugare l’attività economica con altre motivazioni sia illusorio. Conosco imprenditori che sono persone normali, fanno la loro attività ma la motivazione non è la ricerca spasmodica di fare soldi».
 
Quali sono le caratteristiche di un tale modo di fare impresa?
 «La partecipazione è la parola chiave che manca nella nostra società, dalla scuola alla politica e certamente nel lavoro. Sono strutture congegnate apposta per non permettere la condivisione e invece l’evidenza è che la partecipazione è determinante nella vita di un’azienda. Si lavora meglio con più consapevolezza e responsabilità. Certo ci sono tempi più lenti nella decisione, ma la produttività è più alta perché il coinvolgimento, non solo negli utili ma anche nella gestione, è il fattore decisivo».
 
A proposito di partecipazione e politica, Latouche afferma che è illusorio pensare, nell’attuale situazione, di conquistare il potere.
«Certamente si è rivelata illusoria e drammatica l’idea che per cambiare la società occorresse entrare nella famosa “stanza dei bottoni” e pigiare i tasti giusti.  È un’idea semplicistica e ottocentesca che non si adatta alla complessità del mondo attuale». 
 
Comunque l’impressione è che il tempo si sia fatto molto breve. In qualche modo occorre un cambiamento per non cadere nel precipizio di una guerra che molti considerano l’esito scontato della crisi. E allora come fare?
«Finora abbiamo visto il trailer della crisi economica. Quando comincerà a essere proiettato il film vero e proprio l’esito sarà imprevedibile. Abbiamo l’esempio dei regimi autocratici che si sono imposti dopo la crisi degli anni Trenta. Bisogna perciò liberarsi dall’idea che non esista alternativa a questo sistema di cose. Come dimostro in tante analisi sull’aumento dell’infelicità nella società contemporanea, dall’aumento delle malattie mentali al consumo degli antidepressivi, questo stato di cose non funziona. Dati scientifici alla mano posso testimoniare che un cambiamento culturale e l’aspettativa di una soluzione alternativa a questa follia è molto forte e i segnali sono comparsi molto prima dell’esplodere della crisi finanziaria del 2007».
 
Quali segnali?
«Per esempio il fiorire di tante forme di economia sociale e civile che mettono la relazione al centro del processo economico. Cambiano non solo le idee ma anche i fatti. Certo bisogna stare attenti a distinguere la sostanza dalla facciata. Ad esempio la responsabilità sociale di impresa non è certificabile. Si può rivelare un’operazione di marketing. Ma le persone hanno gli strumenti per saper distinguere. Davvero si può votare con il portafoglio. Faccio l’esempio della campagna di boicottaggio contro le multinazionali del petrolio dopo l’uccisione del poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa, che difendeva i diritti della popolazione inquinata dal dominio dei pozzi petroliferi da parte delle aziende occidentali. La flessione sensibile (dal 40 al 50 per cento) dei consumi ha provocato cambiamenti significativi nella politica dei grandi gruppi, ma la cosa è poco nota perché i giornali non ne hanno dato notizia».
 
Ma i giornali vivono di pubblicità.
«Ecco, è proprio questa che rende schiavi. Ci vogliono provvedimenti drastici contro l’invasione della pubblicità, a cominciare dal divieto di quella rivolta ai bambini e con una forte tassazione di tutto il resto».
 
Ma come si fa? Quale politico potrà mai fare una scelta del genere?
«Si può cambiare radicalmente la politica. Nel libro sul Manifesto per la felicità riporto alcuni esempi che si possono applicare. Ad esempio ricorrere al voto elettronico in modo che non sia possibile alcun controllo neanche indiretto dell’elettore con la possibilità di una partecipazione diretta nel merito delle questioni. Se pensiamo all’Italia sembra impossibile, ma in questo Paese esistono enormi giacimenti culturali e di senso civico. Tutto davvero può cambiare in meglio e prima di ogni nostra prevedibile aspettativa». 

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