Perché l’onda assassina

Tsunami, una parola che fino a poco tempo fa era sconosciuta al vocabolario di molti. Adesso è purtroppo associata alla violenza inaudita che il 26 dicembre scorso si è manifestata nella serie di onde anomale, appunto denominate dai giapponesi tsunami, generate da uno spaventoso terremoto verificatosi nelle profondità delle acque dell’Oceano Indiano. Dall’epicentro del sisma, situato al largo dell’isola di Sumatra nel Sud-Est asiatico, il treno di onde ha impiegato un’ora per arrivare sulle coste thailandesi e due ore e mezzo per raggiungere lo Sri Lanka, seminando morte e distruzione; la stessa sorte è toccata a Indonesia, India, Bangladesh e persino ad alcune coste dell’Africa. Le proporzioni del disastro sono state impressionanti, con centinaia di migliaia di vittime. Lo tsunami ha fatto innanzitutto strage di bambini, di pescatori e dei loro figli, di surfisti, di turisti, di quanti, ignari, si trovavano in prossimità delle coste interessate. È praticamente impossibile sfuggire a tale furia: gli tsunami sono onde alte fino a decine di metri che corrono a velocità di diverse centinaia di chilometri all’ora, e tutto quello che trovano sulla loro traiettoria viene spazzato via in un impatto devastante. L’onda è preceduta da uno spaventoso risucchio delle acque, che si ritirano fino a cinquecento metri dalla costa. Ma come si è potuto generare un tale fenomeno così imponente e distruttivo? Gli tsunami sono principalmente conseguenza di potenti terremoti che avvengono sui fondali oceanici. Questi eventi sismici sono tra i fenomeni naturali più frequenti nella crosta terrestre, quella parte del pianeta che arriva a circa 3000 chilometri di profondità, dove la roccia del mantello incontra il ferro fuso del nucleo esterno. All’origine dello scatenarsi dei terremoti vi sono gli scontri fra le grandi placche in cui è divisa la crosta terrestre. Come queste si muovano inabissandosi l’una sotto l’altra. I punti di contatto tra due placche si chiamano faglie, la più famosa delle quali è forse quella di Sant’Andrea che corre lungo la costa californiana per 1000 chilometri ed è profonda 50. Gli eventi sismici sono quindi fenomeni per la maggior parte imprevedibili perché legati a movimenti bruschi della crosta terrestre, in un gioco di accumulo di tensioni e assestamenti in prossimità delle faglie, un po’ come una molla di adeguata rigidità che accumula energia elastica per poi rilasciarla generando energia cinetica, cioè movimento. È proprio quello che è successo il 26 dicembre scorso. Le tensioni accumulate nel corso di anni in prossimità delle faglie tra la placca indiana, quella delle Filippine e l’australiana sono state rilasciate improvvisamente. È come se ai milioni di metri cubi di acqua sovrastanti la faglia fosse stata data una spinta verso l’alto, come uno schiaffo, provocando un innalzamento della superficie del mare nella zona interessata, per poi riabbassarsi e generare onde tutto intorno, propagantesi su circonferenze concentriche fino ad incontrare le coste, dove si sono schiantate. Nel caso delle faglie le energie in gioco sono così grandi che equivalgono alla potenza distruttiva di centinaia di migliaia di bombe atomiche. Il terremoto sul fondale dell’Oceano Indiano è stato così intenso da provocare presumibilmente addirittura lo spostamento della costa dell’isola di Sumatra trenta metri a sudovest, e un leggero spostamento dell’asse terrestre; tutto questo a causa del rilevante riassestamento di masse. La Terra, in questi casi, continua a risuonare come una campana per qualche giorno fino a che le oscillazioni non si smorzano. Normalmente terremoti più violenti tendono a stimolarne altri più piccoli, che possono avvenire anche a centinaia di chilometri di distanza, settimane o mesi dopo quello principale. Fortunatamente questi terremoti secondari tendono a decadere nel tempo e i geologi ne hanno una buona comprensione. L’isola indonesiana di Sumatra era stata già devastata nel 1797 e nel 1833 da terremoti di tale entità. Alcuni geologi notano che, in base alle statistiche degli undici terremoti superiori all’ottavo grado della scala Richter avvenuti negli ultimi cento anni, sei erano concentrati in un arco di tempo ristretto tra il 1952 e il 1965, e che un’altra concentrazione di terremoti si era avuta all’inizio del secolo con effetti devastanti in California, nel 1906, e in Sicilia, nel 1908, quando vennero distrutte San Francisco e Messina. Pertanto, il maremoto di Sumatra potrebbe essere il primo di un grappolo di sismi prossimo a manifestarsi. Sembrerebbe confermare questa tesi la violentissima scossa di terremoto registrata il 23 dicembre tra Australia e Antartide. In ogni caso, quando e come un terremoto si manifesti, nessuno lo può dire, anche se varie sono ormai le vie tentate per prevedere simili eventi. Gli scienziati possono solo immagazzinare informazioni e cercare di accelerare lo scambio di informazioni che possono salvare più vite possibile. Infatti, nel caso dello scorso dicembre, un allarme c’era stato, lanciato appena 15 minuti dopo il terremoto dal Centro di controllo per gli tsunami del Pacifico sito a Honolulu. Tale Centro ha diffuso la notizia a tutti i 26 paesi membri del sistema internazionale di allarme, tra cui Indonesia e Thailandia, ma purtroppo l’allarme si è diffuso troppo lentamente nei paesi interessati che, presi alla sprovvista, hanno sottovalutato la gravità e l’entità del fenomeno. In un’ora di tempo tra il rilevamento del terremoto e l’arrivo dell’onda si sarebbero certo potute salvare molte vite! Nell’Oceano Pacifico, americani e giapponesi sono all’avanguardia nella prevenzione degli tsunami, con sensori in grado di capire in anticipo direzioni e caratteristiche delle onde: si tratta di boe collegate a sismografi sui fondali che trasmettono via satellite ai centri predisposti per il monitoraggio, e in soli due minuti, l’avvenuto terremoto, direzione e velocità dell’onda; un sistema di altoparlanti lungo le coste e la diffusione capillare della notizia attraverso radio e tv permettono di non farsi prendere di sorpresa, salvando molte vite. Alla comunità scientifica spetta l’ardua impresa di perfezionare modelli teorici e di rilevamento tali da cercare di prevedere le zone a rischio, riducendo al minimo le perdite in vite umane. È dell’ultima ora la notizia che entro due anni verrà installato dall’Onu anche per l’Oceano Indiano un sistema di allarme analogo a quello già esistente nel Pacifico, estensibile – si spera rapidamente – a tutto il pianeta.

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