Per una proliferazione della fiducia

Il conferimento del Premio Nobel per la pace al direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’egiziano Mohamed El Baradei, rappresenta, come in altre circostante, un segnale prima ancora che un riconoscimento. Alla luce del fallimento della conferenza delle Nazioni Unite sul disarmo nucleare, tenutasi recentemente a New York, delle situazioni di crisi riguardanti i programmi atomici di paesi come la Corea del Nord e l’Iran, la Commissione del Nobel ha voluto richiamare gli stati, nell’anno del sessantesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki, sui pericoli della proliferazione nucleare per l’intera umanità. Il premio è infatti conferito non solo a El Baradei, ma anche all’Agenzia, che rappresenta, pur con tutte le sue contraddizioni, l’unico – per quanto inadeguato – strumento istituzionale di cui il mondo oggi dispone per fronteggiare i rischi derivanti dall’armamento nucleare. La scelta rappresenta un ammonimento, dunque, non solo per i paesi che intendono perseguire programmi atomici nucleari, ma anche per quelli che mirano a creare alternative a proprio uso e consumo a tale già fragile sistema di controlli (come hanno fatto gli Stati Uniti nel recente passato, con il lancio di iniziative estemporanee, al di fuori del quadro delle organizzazioni internazionali istituzionali). Come che sia, il punto essenziale oggi è che, specie dopo la vicenda della guerra in Iraq, la Commissione per il Nobel indica nella diplomazia e non nel ricorso alla forza la strada maestra per la soluzione delle crisi internazionali (a questo riguardo, va ricordato che El Baradei era stato uno strenuo difensore del ruolo degli ispettori sulle armi di distruzione di massa in Iraq). Sullo sfondo rimane la sostanziale inadeguatezza del Trattato per la non proliferazione nucleare, che vincola solo gli stati che vi hanno aderito, mentre dà sostanzialmente mano libera a quelli che hanno deciso di restarne fuori (come India, Pakistan, Israele e molti altri). Inoltre rimane aperta la questione della legittimità del club nucleare, e cioè del gruppo di paesi che ufficialmente detengono armamenti atomici (Stati Uniti, Rus- sia, Cina, Gran Bretagna, Francia). Devono continuare ad esistere privilegi ed eccezioni in un ambito nel quale è a rischio la stessa sopravvivenza del genere umano? In questo caso, la questione di fondo non è tanto e non solo chi controlla i controllori, ma soprattutto quale credibilità essi abbiano nel dettare divieti e dare pagelle. Se è innegabile che il ruolo delle istituzioni internazionali rimane centrale per evitare che le crisi degenerino in conflitti, è anche vero che la questione nucleare è solo un aspetto, certo il più insidioso, del problema del disarmo. Che dire ad esempio delle crescenti spese militari, che da sole corrispondono alla somma del prodotto nazionale lordo di molti Paesi in via di sviluppo messi assieme? Che dire delle altre armi di distruzione di massa, come la fame, l’Aids, le malattie infantili, che potrebbero essere debellate se vi fosse un’adeguata volontà politica a livello internazionale? Il disarmo nucleare è inoltre solo un aspetto del disarmo militare. Più fondamentalmente, occorre passare dalla coscienza del disarmo ad un autentico disarmo delle coscienze. Ai rischi della proliferazione nucleare occorre rispondere, certo, con precise iniziative diplomatiche; ma senza la proliferazione della fiducia e della solidarietà anche tali azioni benemerite rischiano di poggiare sulle sabbie mobili del sospetto e della paura.

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