Parole come frecce

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“Ci preoccupiamo delle parole, noi scrittori. Le parole significano. Le parole indicano. Sono frecce. Frecce conficcate nella ruvida pelle della realtà”. Cominciava così il suo discorso Susan Sontag. Lei, i capelli ostinatamente striati di grigio, quasi una figura da pasionaria fuori moda. Un personaggio che diresti appena uscito da un film di Woody Allen. E fuori, Gerusalemme, arsa dal sole. Quel luogo dove le parole sembrano pesare più che in altri luoghi sulla Terra. Gerusalemme con le sue due facce: quella eterna, radiante di pace; quella contingente – una lunga e travagliata contingenza -, un volto provato, fra le cui rughe si leggono anche odio, guerra, sangue. “Che cosa intendiamo, per esempio con la parola pace?”, continuava nel suo discorso la Sontag. “Intendiamo forse assenza di conflitto? Oblio? Perdono? O forse una grande stanchezza, un esaurimento, il prosciugamento di ogni rancore? A me pare che per la maggior parte della gente pace significhi vittoria. La vittoria del proprio schieramento. Per loro vuol dire questo, mentre per gli altri significa sconfitta”. Era amara la costatazione di Susan. Amara, ma purtroppo, in gran parte, storicamente vera. Che contrasta però con il concetto originario, biblico, di pace. Nonostante la Bibbia ci riporti tanti fatti sanguinari, la pace costituisce da sempre il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le speranze messianiche risiede proprio nella pace universale. In ebraico pace si dice shalom, parola che si rifà alla radice shalem che dà l’idea di completezza, di interezza. Non vi è completezza in un mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza. Shalom, il traguardo, la completezza definitiva, la pace che nella Bibbia s’invoca e ricerca, si pretende e si vuole costruire nonostante le tante battute d’arresto di fronte all’insorgere del male. Shalom che si può coltivare non solo ai tavoli delle trattative diplomatiche, non solo nel tentativo d’instaurare rapporti di maggior comprensione con chi appartiene all’altra fazione, ma anche con la letteratura. Sì, la pace si può anche costruire nel mondo, che a volte appare impotente e stantio, dei libri. È questo il significato del premio Gerusalemme. Premio di grande importanza che, nonostante la sua relativamente breve storia, è stato assegnato ad alcuni dei maggiori scrittori della seconda metà del ventesimo secolo. È un premio letterario, ma volutamente s’intitola “Premio Gerusalemme per la libertà dell’individuo nella società”. Come per sottolineare l’ideale a cui è chiamata la letteratura. È passato qualche tempo dall’assegnazione del premio, ma le parole della Sontag ritornano alla mente, in queste settimane segnate dalla violenza. Susan, soprattutto nei suoi saggi, ha inteso lo scrivere come impegno per la tolleranza e la comprensione. Ha cercato di scrivere storie belle, ricche di significato e di emozioni, ma nelle cui viscere più profonde si annida il continuo tentativo di ricercare la verità. “Uno scrittore non dovrebbe essere una macchina produttrice di opinioni ” continuava il discorso della Sontag alla cerimonia d’accettazione del Premio. “Il primo compito dello scrittore è dire la verità… è rappre- sentare le realtà: le realtà ripugnanti, le realtà estatiche. E l’essenza della saggezza offertaci dalla letteratura sta nell’aiutarci a comprendere che qualunque cosa accada, succede sempre qualcos’altro. Io sono ossessionata da quel qualcos’altro. Sono ossessionata dal conflitto tra i diritti e i valori che mi stanno a cuore”. Sontag affermava le sue idee sulla pace, nella travagliata terra d’Israele; e ammetteva che sono idee in fondo condivise da tanti e che essa sta semplicemente usando la sua celebrità di scrittrice per fare da cassa di risonanza a un coro di voci ben più ampio. Ma il compito dello scrittore non esaurisce in questo. “Gli scrittori seri, i creatori di cultura, non dovrebbero soltanto esprimersi in modi diversi da quelli utilizzati dal discorso egemonico dei mass media. Dovrebbero opporsi al diffuso chiacchierio dei telegiornali e dei talk show. Il problema dell’esprimere opinioni è che se ne resta intrappolati. Mentre ogni volta che uno scrittore agisce da scrittore vede sempre… qualcosa di più”. Susan ha combattuto tante battaglie dalla scrivania di scrittrice. Anche una lunga e faticosa lotta personale contro la malattia, il cancro. Forse per questo riesce a intuire quel “qualcosa di più” che ogni scrittore dovrebbe vedere. “Quello che gli scrittori dovrebbero fare è liberare, scuoterci” continua lei. “Aprire le porte alla compassione e a nuovi interessi. Ricordarci che potremmo aspirare a diventare diversi, e migliori di come siamo”. Affermano, alcuni critici, che la Sontag riesca meglio nei discorsi – e nelle lunghe interviste concesse a ore impossibili – che nello scrivere; quella volta, a Gerusalemme, provocò quasi un abbraccio fra pace e letteratura: “Accetto il premio in nome della pace e della riconciliazione tra comunità ferite e impaurite. Una pace necessaria. Concessioni e nuovi accordi necessari. Un necessario abbattimento degli stereotipi. Una necessaria prosecuzione del dialogo. Accetto il premio come un evento che rende onore, sopra ogni cosa, alla repubblica internazionale delle lettere”.

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