Palermo: né avanti né indietro sulla Libia

Nella conferenza promossa dal governo italiano equivoci, gelosie e permalosità prendono il posto della diplomazia. Aspettando di nuovo delle elezioni che non serviranno a nulla, o quasi
Dmitri Medvedev, Giuseppe Conte, Donald Tusk, Fayez al-Sarraj, Marshall Khalifa Haftar ANSA/FILIPPO ATTILI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Grandi discussioni, foto di gruppo, conferenze stampa, incontri riservati, dichiarazioni off line, voli anticipati, disdette e disdette delle disdette.

Di tutto e di più è successo alla conferenza di Palermo del 12 e del 13 novembre sulla questione libica, promossa dal governo italiano che aveva diversi obiettivi, dichiarati o nascosti: ridorare il blasone diplomatico italiano, in grave crisi di delegittimazione; dimostrare di saper lavorare meglio della Francia; occupare gli spazi in vista della ricostruzione del Paese e della firma di nuovi contratti petroliferi; permettere a Conte e Moavero una visibilità solitamente rubata loro dai due vicepremier.

Ma il risultato migliore della conferenza di Palermo è stato un altro: quello di dare un’immagine realistica del presente libico. Cioè un gran caos, o se vogliamo essere positivi un puzzle ancora nella scatola.

Marshal Khalifa Belqasim Haftar, capo della Forze armate libiche (Lna) e uomo forte della Cirenaica (nell’est), e il capo del governo rivale di “contratto nazionale”, Faiez Sarraj, con sede a Tripoli (nell’ovest), hanno per due giorni fatto le bizze, giocando coi nervi degli organizzatori.

Il primo, in particolare è riuscito a catalizzare l’attenzione dei media, essendoci ma dicendo di non esserci, determinando in fondo i campi di chi era con lui o contro di lui.

Turchia e Qatar sono ad esempio stati esclusi dalla riunione informale (e se ne sono andati prima della fine della conferenza) perché invisi totalmente ad Haftar, mentre al Sissi e Medvedev sono stati ammessi al vertice mattutino, che era il vero clou della due giorni palermitana.

Ma lo stesso al Sissi se n’è andato prima della conferenza stampa finale, e Haftar non si è nemmeno seduto al tavolo, anche se ha lasciato dei collaboratori per i dossier a lui cari, petrolio e finanziamenti internazionali, sicurezza e migrazioni.

Alla conferenza stampa finale con l’inviato Onu Ghassan Salamè, il primo ministro Giuseppe Conte ha cercato di arrampicarsi sugli specchi sottolineando «il positivo svolgimento della riunione», pur riconoscendo l’enormità del compito:

«Se dovessimo essere in grado di parlare di successo, avremmo trovato la soluzione a tutti i problemi. In questo senso la conferenza non è stata un successo», ha ammesso Conte, anche se ha voluto notare come fossero presenti tutti gli attori importanti del gioco libico. E che «sia stato reso un servizio all’Europa».

Perché Haftar non ha voluto sedersi al tavolo della trattativa? Si dice per due motivi: avrebbe in primo luogo espresso la sua delusione per alcuni equivoci diplomatici manifestatisi nel rush finale prima del vertice di Palermo, non apprezzando un tweet di Matteo Salvini, vice primo ministro, durante la sua visita in Qatar il 31 ottobre, in cui il vice premier leghista affermava di aver «scoperto un Paese rispettoso e tollerante che ha respinto l’estremismo» e che perciò «aiuterà a stabilizzare la Libia».

D’altra parte, la visita del ministro della Difesa turco a Tripoli il 5 novembre, dove ha incontrato Sarraj, e la visita di quest’ultimo ad Ankara il 9 novembre, in cui ha incontrato Recep Tayyip Erdogan, avrebbero irritato altamente il maresciallo.

Risultato: Haftar è riuscito nell’intento di far capire a Roma che il governo italiano è troppo vicino a Serraj, mentre dovrebbe fare come i francesi, che lo appoggiano incondizionatamente. E poi non va dimenticato che Haftar ha ancora bisogno di imporsi nell’opinione pubblica nazionale e internazionale non solo come un militare ma anche come un uomo di Stato.

Gli ottimisti sottolineano che a Palermo sono state confermate le elezioni generali della primavera del 2019, come previsto dalla bozza di lavoro dell’inviato Onu Ghassan Salamè.

Ma ciò non tiene contro dei fattori che impediscono di ricomporre il puzzle libico: lo spezzettamento tribale dell’attuale Libia (una dozzina di milizie si combattono); il formarsi di coalizioni internazionali troppo marcate a favore dell’uno o dell’altro dei due principali contendenti (Francia, Egitto e Russia a favore di Haftar; Italia, Turchia e Qatar più sbilanciate su Serraj); il fallimento delle precedenti elezioni del 2012, dopo la caduta di Gheddafi, che ha dimostrato come la leva elettorale sia poco utile in Libia; gli interessi economici che guidano le varie fazioni, con tanto di spartizione di fatto dei campi di petrolio più ricchi del Paese;

la questione migratoria, che aleggiava su ogni trattativa senza che si riuscisse ad entrare nel vivo dell’argomento, molto scomodo per i libici; il contrasto franco-italiano, più che evidente, nel quale Angela Merkel ha preferito non entrare; la sostanziale esclusione dell’Onu dalle vere trattative, mentre sarebbe l’unica istanza deputata a farlo seriamente, o semmai l’Unione europea…

Sostanzialmente Palermo ha confermato lo stato di stallo che caratterizza la situazione libica. Se si vuole trovare un ulteriore lato positivo all’evento palermitano, c’è il fatto che in fin dei conti se ci si riunisce non ci si spara. Ma fino a quando?

 

 

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