Ocse: deficit di laureati in Italia

Dai dati Ocse emerge la seria difficoltà del sistema universitario italiano per basso numero di laureati ( solo il 4% della popolazione tra 25 e 65 anni)  e un alto tasso di abbandoni degli studi
ANSA/ CIRO FUSCO

Provate a fare due chiacchiere con qualcuno che abbia trascorso un periodo di studio all’estero, perlopiù alle scuole superiori o all’università: quasi sicuramente – e chi scrive vi conferma queste impressione – vi dirà di aver avuto la netta impressione che gli studenti italiani, con il loro bagaglio sia di conoscenze che di italico arrangiarsi, sono stati all’altezza del confronto con un sistema di istruzione diverso.

Anzi, almeno fino ai primi anni di università, mediamente più preparati dei coetanei stranieri dal punto di vista accademico. Eppure, almeno stando ai numeri, sembrerebbe che non siamo in grado di far fruttare al meglio questa preparazione di base in termini di titoli di studio.

Secondo il rapporto Education at a glance (che si potrebbe tradurre come “Colpo d’occhio sul sistema d’istruzione”) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) l’Italia non brilla per livello di istruzione tra i Paesi più industrializzati.

Solo il 4 per cento della popolazione tra i 25 e i 65 anni è infatti in possesso di una laurea, contro il 17 per cento di media negli altri Paesi; e il divario rimane ampio anche se si considera la fascia d’età 25-34 anni, con il 27 per cento contro il 44 di media. Significative le differenze di genere, questa volta in favore delle donne: arrivano alla laurea 33 ragazze su 100, contro il 20 dei ragazzi.

Ma come, si dirà, non avevamo le facoltà universitarie così affollate da dover prevedere corsi a numero chiuso? E l’università italiana non è forse notoriamente poco efficace nel garantire una preparazione adatta al mondo del lavoro? Come sempre, la questione è più complessa.

Secondo i dati Eurostat, l’Italia è la seconda nazione europea per abbandoni universitari – oltre 500 mila nel 2016 – pari, secondo i dati Anvur, a percentuali che si aggirano tra il 30 e il 40 per cento degli iscritti a seconda dell’anno di immatricolazione considerato.

I motivi sono i più svariati – desiderio di entrare nel mondo del lavoro, costo degli studi, eccessiva parcellizzazione del percorso di studi che si è in alcuni casi verificata dopo la riforma del 3+2 – ma il fatto è che quasi la metà di chi inizia poi non finisce. E già qui sta una prima spiegazione di questi dati.

Aggiungiamoci poi che, sempre secondo l’Ocse, l’Italia investe il 28 per cento in meno degli altri Paesi jn termini di dollari equivalenti per studente, fornendo borse di studio solo al 20 per cento degli studenti (contro il 55 della Finlandia)a fronte di una retta media annua di 1647 dollari equivalenti, e abbiamo un altro tassello.

A questo si aggiunge il fatto che solo il 42 per cento dei diplomati prosegue gli studi, contro 63 per cento della media Ue. Il che, verrebbe da dire, non è necessariamente una scelta biasimabile: sempre secondo il rapporto Ocse, in Italia la quota di laureati che lavora è tra le più basse al mondo, l’81 per cento.

Laurearsi quindi non paga in termini lavorativi? Naturalmente la risposta non può essere univoca perché dipende dal settore considerato, ma secondo il rapporto 2018 del Consorzio Almalaurea la retribuzione media di un laureato arriva ad essere anche il 40 per cento più alta di chi non ha l’agognato pezzo di carta, e se si considera il tasso di occupazione globale dei laureati questo è più alto del 13 per cento rispetto ai non laureati – per quanto il posto fisso sia ormai un ricordo d’altri tempi.

Insomma, un quadro a tinte contrastanti, che può comprensibilmente disorientare i giovani nelle loro scelte di studio e di lavoro. Non solo cattive notizie però: l’Italia ha raggiunto la pressoché completa scolarizzazione nella fascia fino a 14 anni, ed è uno dei sistemi scolastici più “egualitari” al mondo: il 71 per cento dei ragazzi figli di non laureati prosegue gli studi, contro il 47 per cento della media Ocse, ponendo quantomeno le basi per una possibilità di “mobilità sociale”.

Una scuola forse “bistrattata”, dunque, ma che a esse più inclusiva di altre.

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