Obama internazionale

Le prime mosse di Barack Obama sono state tutte caratterizzate, si potrebbe dire, da un’impronta internazionale. Non solo perché gli Stati Uniti sono comunque una potenza mondiale e le decisioni della amministrazione statunitense sono in ogni caso destinate ad avere riflessi sul resto del mondo. Ma anche per una scelta consapevole di dare il segnale di un ritorno amichevole degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Il primo decreto firmato dal neo-presidente ha riguardato, come promesso, la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo da tutti considerato, sotto l’amministrazione Bush, contrario agli standard del diritto internazionale, alle garanzie giuridiche minime e persino alla giurisdizione interna americana. Si pone ora il problema di dove collocare i reclusi di Guantanamo, e alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, sia pure in ordine sparso, si sono detti disponibili ad accogliere quei detenuti per i quali non ci sono prove di diretta partecipazione ad atti di terrorismo e a fatti di sangue. Obama ha poi sin dal primo giorno mostrato di volersi occupare con urgenza della crisi israelo-palestinese. Le sue telefonate ai leader della regione, tra cui anzitutto quello palestinese Abu Mazen e quello israeliano Olmert, ne sono un segno concreto. Anche se sono entrambi, per ragioni diverse, delle anatre zoppe dal punto di vista politico, perché hanno un futuro elettorale ravvicinato assai incerto, è necessario però concretizzate tali intenzioni in un’azione diplomatica decisa e (auspicabilmente) risolutiva. Obama ha poi completato il gruppo dei suoi più diretti collaboratori in politica estera. Oltre all’esperto vice presidente Biden e ad Hillary Clinton, nominata segretario di Stato, Obama potrà avvalersi della collaborazione di due importanti ed autorevoli inviati speciali. Il primo è George Mitchell, a cui è affidato il dossier del Medio Oriente, che ha al suo attivo la mediazione che portò le fazioni dell’Irlanda del Nord al noto accordo del Venerdì Santo nel 1998. L’uomo giusto al posto giusto, quindi. Il secondo inviato non è da meno in termini di esperienza e capacità: si tratta di Richard Holbrook, incaricato di seguire Afghanistan e Pakistan. Holbrook ha un vastissimo curriculum diplomatico, tra cui gli accordi di Dayton, che nel 1995 misero fine alla sanguinosa guerra civile in Bosnia. Obama ha annunciato che intende procedere ad un graduale e progressivo disimpegno militare dall’Iraq, per concentrarsi sull’Afghanistan, un Paese dove la stabilità è ancora lontana e dove l’intervento della comunità internazionale non ha finora prodotto risultati decisivi. Anche in altri ambiti non meno importanti per la pace mondiale, Obama è, per così dire, passato all’offensiva. Questo vale in primo luogo per il mondo islamico, al quale Obama, fin dal discorso inaugurale, per proseguire poi con l’importante intervista concessa alla tv Al-Arabyia, ha teso la mano. Così ha iniziato la difficile impresa di ripristinare un minimo di fiducia per la politica estera statunitense presso i Paesi (ed i popoli) arabi e musulmani. Non è detto che la nuova strategia di Obama funzioni e porti frutto, anche per le situazioni socialmente e culturalmente difficili di molti Paesi in bilico tra autoritarismo e prospettive di un islamismo fondamentalista, ma quanto meno da Washington cominciano ad arrivare messaggi più accorti e costruttivi. Un altro nodo difficile della presidenza Obama sono i rapporti con l’Iran. Il neo-presidente non sottovaluta le questioni controverse, a cominciare dal programma nucleare iraniano, per proseguire con il sostegno diretto o indiretto dato da ambienti iraniani al terrorismo nell’area medio-orientale, ma ha chiaramente detto che gli Stati Uniti sono pronti a parlare con Teheran, purché ciò avvenga non in modo episodico o strumentale, ma in un quadro di impegni seri e di fatti concludenti. Sarebbe una svolta per l’intera regione. Anche le scelte effettuate sul piano economico, benché concepite ovviamente in primo luogo per rilanciare l’economia americana (con una disoccupazione che ormai supera il 7 per cento), rappresentano un messaggio di portata mondiale. La decisione di rivitalizzare il settore dell’auto, che è una componente fondamentale dell’economia americana, si accompagna ad alcune condizioni di importanza strategica, come quella di privilegiare le auto meno inquinanti e favorire l’innovazione tecnologica. In campo energetico Obama intende diminuire la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio, raddoppiando entro tre anni le potenzialità di produzione di energia verde, incrementando l’utilizzo dell’energia eolica e solare e dei bio-carburanti. Restano da realizzare programmi importanti dal settore della sanità (da estendere a tutta la popolazione: oggi decine di milioni di statunitensi ne sono infatti ancora esclusi) a quello del miglioramento dei livelli di istruzione per i settori più svantaggiati. Si tratta però di programmi ciclopici, che in una situazione di crisi economica possono avere una possibilità di attuazione solo se non sono pensati come una spesa ma realizzati come un investimento, anche produttivo, in capitale sociale per il futuro. Infine, le questioni etiche. Ha suscitato una netta presa di posizione critica, specie da parte della Chiesa cattolica, la decisione di Obama di porre fine al bando del finanziamento con fondi pubblici per quelle organizzazioni non governative operanti nei Paesi in via di sviluppo che diano informazioni o assistenza sulla pratica dell’aborto. Si tratta di una norma controversa, introdotta o abolita dal 1984 a seconda del colore dell’amministrazione statunitense di turno. Ma è anche una norma molto specifica e circoscritta, che forse non era così urgente adottare, anche perché queste materie delicate richiederebbero, al momento delle scelte politiche, un confronto aperto e sereno. La intangibilità della vita, che è un principio fondamentale, va affermata in tutte le sue fasi (nascita, esistenza, morte). Una politica per la vita deve essere perciò giudicata – anche molto severamente – da un insieme ampio di scelte e decisioni e non da un singolo atto. Obama ha ad esempio firmato un’importante legge sulla parità del salario tra uomo e donna (il Lilly Ledbetter Fair Pay Act): oggi le donne negli Stati Uniti sono pagate in media il 23 per cento in meno; quelle appartenenti a minoranze etniche ancora di meno. È anche questa, assieme ad una migliore assistenza sanitaria per tutti, una forma di difesa della maternità, poiché dà alle donne la tranquillità di non essere penalizzate per la nascita di un figlio. Ed è politica in favore della vita anche l’annunciata realizzazione (sia pure progressiva, vista la grave situazione economica interna) del programma di raddoppio dei fondi per la cooperazione con i Paesi più svantaggiati per combattere la malnutrizione, l’estrema povertà, le malattie endemiche e pandemiche.

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